Siamo tutti sulla stessa barca: da solo non si salva nessuno

Ci tocca pedalare

Intervista di Pino Corrias a Romano Prodi su Il Venerdì de La Repubblica del 01 maggio 2020

In questa lunga quarantena è arrivato fino a Venezia (sul tapis roulant). per il resto Romano Prodi legge, mette a posto la scrivania, e qui spiega a quali condizioni ce la potremo fare.

Nel mondo di prima, Romano Prodi, 80 anni, detto il Professore, viaggiava per l’Africa, la Cina, l’Europa, scalava gli Appennini in bicicletta e camminava nel cuore di Bologna a piedi, possibilmente con la signora Flavia al braccio. Nel mondo di oggi, corre in solitaria sul tapis roulant per dieci chilometri al giorno. E, senza mai uscire di casa, calcola di essere arrivato a Venezia, per ora, senza forzare mai troppo con il fiato e con la nostalgia. Sorride: «La fretta nei tempi dell’attesa è un controsenso, giusto?». Giusto.

Del resto un diesel lo è sempre stato. Dai tempi della scuola, quando cominciò scarso in inglese per poi diventare il miglior diplomato dell’Emilia-Romagna, conquistare la lode in Giurisprudenza alla Cattolica di Milano, specializzarsi alla London School of Economics, poi Harvard, poi Standford. Ministro dell’Industria a 39 anni. Due volte zar dell’Iri, ai tempi in cui il colosso statale aveva mezzo milione di dipendenti, costruiva dighe e scatole di pomodori, banche e cioccolatini, sprofondando nei bilanci in rosso. Disse: «L’ho risanato in nove anni di lavoro duro. Ho fatto 33 privatizzazioni, alla trentaquattresima hanno privatizzato me».

Cresciuto nella numerosa nidiata della sinistra democristiana, tendenza Nino Andreatta, ha provato due volte a governare l’Italia con l’Ulivo, per due volte assaltato alle spalle non dalle destre, ma dalle lungimiranti sinistre di Bertinotti & D’Alema, che la restituirono, con la migliore ostinazione possibile, a Silvio Berlusconi che Prodi si era incaricato di battere due volte su due. Ma è stato anche uno dei padri dell’Unione Europea, della moneta unica, presidente della Commissione per quattro anni a Bruxelles, strenuo difensore di quell’idea dell’Europa come “unione democratica di tante minoranze”.

Europa che dalle stanze della sua casa di via Gerusalemme non sembra mai lontana. «Da Venezia punto alla Romania» dice ridendo. «Ma se ci faranno uscire prima di casa, rinuncio volentieri».

Se lo aspettava che il mondo intero sarebbe cambiato così in fretta?

«Non credo se lo aspettasse davvero nessuno. Nemmeno Bill Gates, che pure lo aveva messo tra i rischi possibili del Pianeta».

Anche per lei il tempo è diventato sterminato?

«Sterminato, no. Lento. Ma ogni giorno scopro che ho tantissime cose da fare».

Per esempio?

«Leggo, scrivo, guardo qualche telegiornale, tengo lezioni via Skype alla Business School di Bologna. C’è un liceo che ogni tanto mi invita a discutere con i ragazzi online. Lo faccio volentieri. Sto molto al telefono con gli amici e poi mi organizzo la casa intorno».

Ha sistemato anche lei le librerie?

«Non ancora. Ma ho messo a posto il tavolo dove lavoro, cosa che non facevo da qualche anno. E poi ho aperto pacchi di libri che dormivano impilati».

Leggendo cosa?

«Metà saggi di economia e metà di politica».

Neanche un romanzo?

«Uno solo, M di Antonio Scurati, sull’ascesa di Mussolini in quegli anni lontani che ogni tanto sembrano vicinissimi. E lo sto leggendo in modo analitico».

Sarebbe a dire?
«Che sottolineo, prendo appunti, rifletto».

Su cosa?

«Sulla clamorosa volatilità delle opinioni pubbliche. Su come una tensione costantemente alimentata riesca a cambiare la percezione del vero e del falso. Sull’incredibile potere della propaganda. Sul fatto che forze solidissime, come il Partito socialista di allora, i consigli operai, si siano sbriciolate in un istante. E che quando si arriva a quei livelli di tensione politica, propagandistica, sociale, la coerenza non conti più nulla».

Si può dire, disdire, inventare.

«E credere a cose incredibili».

In anni molto più recenti la gente ha creduto al dio Po di Umberto Bossi e al milione di posti di lavoro di Silvio Berlusconi.

«Appunto».

E oggi? Sta smettendo di credere nella democrazia, impaurita e impoverita dalla globalizzazione?

«Impaurita, sì. Impoverita non direi del tutto. La globalizzazione ha dato da mangiare a 2,5 miliardi di persone che stavano ai margini del mondo e della Storia. Ma di sicuro ha messo in crisi il ceto medio di tante economie consolidate».

La crisi ha generato insofferenza per il mondo nuovo e una spinta reazionaria verso quello vecchio.

«Una parte del mondo sta andando in quella direzione. Chiede autorità e autoritarismo. Se guarda la carta planetaria, il paesaggio fa abbastanza impressione. Provi a cominciare da Est: le Filippine di Duterte, le autocrazie dell’Asia Centrale. E poi la Cina sempre più centralista, l’India, la Russia di Putin, la Turchia, la Polonia, l’Ungheria di Orbán, il Brasile di Bolsonaro, l’America di Trump».

Prevedeva una deriva del genere?

«Assolutamente no».

Troppa Europa dei banchieri, troppi interessi nazionali in collisione tra loro, troppi regolamenti: l’Europa è condannata a frantumarsi?

«No, non lo credo affatto. Penso che l’allarme per il virus potrà addirittura invertire la tendenza alla dissoluzione. Penso che nel disastro comune troveremo nuove ragioni per stare insieme. Finita l’emergenza sanitaria, ci sarà una recessione tremenda e ogni Paese avrà ancora più bisogno degli altri per rimanere in piedi».

Al momento non sembra.

«Se ognuno andrà per la sua strada saremo più deboli, più sottomessi ai colossi come la Cina e l’America. E poi come farà la tedesca Volkswagen a sostituire i pezzi che produciamo per loro in Italia? E l’Olanda? A chi li venderà i tulipani?».

Quindi ne usciremo insieme?

«Non vedo alternative, da soli non contiamo nulla, ci sono 17 cinesi per ogni tedesco e 23 cinesi per ogni italiano».

L’Europa reagirà?

«Assolutamente sì».

Nonostante un Orbán che si prende tutti i poteri, approfittando del virus?

«Ah, Orbán! Lo conosco dai tempi del suo primo governo, anno 1998. Venne a Palazzo Chigi e a cena voleva spiegarmi come funzionava l’economia di mercato. Flavia mi dava calci sotto il tavolo per dirmi guai a te se rispondi o se ti metti a ridere. È gravissimo che il Partito popolare europeo non lo abbia ancora cacciato.
Cosa aspettano?».

Sono le lentezze della democrazia.

«Le democrazie fanno fatica a reagire, ma nel lungo recuperano».

La nostra?

«Mi pare che si stia comportando bene».

Nonostante le due dozzine di commissioni?

«Tanti anni di governo mi hanno insegnato che un cammello è un cavallo disegnato da una commissione».

Ornamentali e inutili?

«Diciamo che sono utili se sono poche, con pochissimi membri e un problema ben chiaro da risolvere.
Uno, non cento».

Se è per questo non ci facciamo mancare neanche gli esperti. Non sono anche loro troppi?

«Sono tutti necessari a patto che alla fine ci sia una sintesi. Altrimenti diventano come gli economisti, bravissimi a spiegare quello che è già successo».

Dopo tanta retorica populista contro le élite, torna in auge la competenza?

«Tornano in auge tante cose. Per esempio, torna anche il ruolo centrale del Welfare, e della sanità pubblica, dopo avere innalzato così tanti monumenti a quella privata».

Tutti i mercati nazionali chiedono aiuti pubblici. Rinasceranno l’economia di Stato e l’Iri?

«Non credo, i tempi cambiano, il passato resta dov’ è. Ma il peso dello Stato finalmente tornerà a crescere rispetto allo strapotere dei mercati.
Il Welfare è la conquista più importante degli ultimi settant’ anni. Vuol dire sanità pubblica, equità, diritti comuni, ma anche protezione pubblica in economia. Il governo fa bene a usare le Golden share a tutela delle nostre imprese».

Appena ieri, ai tempi dell’ultima Finanziaria, in Europa ci scannavamo per 5 o 7 miliardi di deficit aggiuntivo. Oggi ragioniamo intorno a interventi europei da cinquecento, mille, tremila miliardi.
Quindi i soldi c’erano.

«Per ripararti dalla pioggia apri l’ombrello e litighi se è troppo piccolo.
Ma se cade la grandine e vengono giù i cornicioni, be’, corri tutti insieme e cerchi un riparo comune».

Il virus si è portato via l’egoismo degli Stati?

«Il pericolo ci ha fatto salire tutti sulla stessa barca. Da solo non si salva nessuno. Pensi alla crisi greca di dieci anni fa. Era una cosa che poteva essere risolta con un prestito, ma la Germania andava a elezioni e Angela Merkel non se l’è sentita di mettersi contro la sua opinione pubblica. Così la piccola crisi della Grecia è diventata una valanga».

Sull’utilizzo del Mes, il fondo salva-Stati, Berlusconi è d’accordo con lei. È la prima volta, credo.

«Due ragazzi come noi che per una volta giocano insieme è una bella cosa, no?».

La politica imparerà qualcosa da questo disastro?

«La politica si muove secondo necessità e interessi. Ma ha anche la tendenza a dimenticare in fretta. E l’opinione pubblica ancora di più».

La cosa più importante da fare domani?

«Essere veloci con gli aiuti, con i soldi, con le soluzioni. E cancellare più burocrazia possibile».

Cosa le manca del mondo di prima?

«Tutto. Comprese le imperfezioni».

Quando potrà aprire la porta di casa, cosa farà?

«Quando vivi tempi eccezionali, è la normalità che ti manca. E perciò scenderò le scale, camminerò fino alla piazza, sarà la cosa più bella».

 

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