Romano Prodi http://www.romanoprodi.it Pagine del sito del prof. Romano Prodi Sat, 16 Mar 2024 09:48:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.25 Leggi elettorali: restituire agli elettori la scelta dei politici http://www.romanoprodi.it/strillo/leggi-elettorali-restituire-agli-elettori-la-scelta-dei-politici_20877.html Sat, 16 Mar 2024 09:00:57 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20877

Sistemi elettorali – La scelta dei politici restituita agli elettori

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 16 marzo 2024

Si parla tanto di crisi della democrazia, una crisi che parte dagli Stati Uniti, ma ormai presente nella maggioranza dei paesi europei. Proprio per le diverse caratteristiche di queste due realtà, anche le cause della crisi sono evidentemente diverse.

Dominante negli Stati Uniti è la spaccatura della società: non solo tra Trump e Biden, ma tra democratici e repubblicani, fra bianchi e neri, fra stabilizzati ed immigrati, fra ricchissimi e poverissimi con lo spiazzamento della classe media, fra abitanti delle coste e quelli dell’America profonda e, perfino, tra laureati e non laureati.

Non sono certo in grado di addentrarmi nei particolari di un’analisi troppo complessa, ma si deve certamente ammettere che anche la democrazia europea soffre di gravi malattie, alcune simili a quella americane come l’aumento delle differenze fra ricchi e poveri, l’indebolimento della classe media e, soprattutto, la crisi del welfare, che sta provocando una crescente fragilità proprio nel settore di cui la democrazia europea era giustamente orgogliosa.

In Europa mancano forse alcune delle tensioni presenti nella società americana, ma il comune atteggiamento anti immigrati è, da entrambi i lati dell’oceano, il principale strumento per una vittoria elettorale, proprio nel momento in cui negli Stati Uniti il copioso flusso di immigrazione (regolare o clandestina) è comunemente ritenuto una delle ragioni del boom economico e la mancanza di manodopera una delle principali cause del pigro andamento dell’economia europea.

In Europa, tuttavia, si aggiunge la moltiplicazione dei partiti e il conseguente prevalere dei governi di coalizione che, nella progressiva diversificazione della società, diventano sempre meno omogenei nei programmi e negli obiettivi.

L’attività dei governi europei si concentra infatti nel continuo sforzo di mediazione all’interno delle coalizioni stesse, una fatica che rende più precaria l’azione dei governi e più breve la loro vita.

Come risultato di questi processi in corso, le fratture della società provocano crescenti tensioni e rendono sempre più difficile l’attività di governo anche negli Stati Uniti, dove il sistema bipartitico aveva costantemente prodotto la formazione di un governo pienamente operativo, anche in presenza dei pesi e dei contrappesi di cui la democrazia americana è sempre stata orgogliosa.

L’impossibilità di raggiungere un accordo sul sostegno all’Ucraina è un chiaro esempio di questa involuzione. In Europa, alle fratture nella società, si aggiunge la tribolata vita delle coalizioni, la fatica nel costruire una strategia politica e la breve vita dei governi. Tutto questo costituisce un pericoloso elemento di debolezza di fronte alla maggiore stabilità e durata dei regimi totalitari.

Il breve periodo di vita dei governi e la limitazione dei loro orizzonti impediscono inoltre di mettere mano alle riforme necessarie alla vita stessa dei sistemi democratici. Essi non possono nemmeno essere fedeli alla tradizionale regola della democrazia secondo la quale nei primi due anni di vita della legislatura si prendono le decisioni impopolari, che però possono esercitare le loro conseguenze positive prima del successivo appuntamento elettorale.

Queste mancanze spingono i cittadini verso un crescente desiderio di  autoritarismo, accettando anche una progressiva rinuncia al bilanciamento dei poteri che costituisce il fondamento stesso della democrazia.

Invece di correggere le deviazioni si accettano le regole di sistemi che ottengono una maggiore durata e una maggiore capacità decisionale dei governi, ma che tuttavia, senza un ordinato equilibrio dei poteri, tendono fatalmente verso l’autoritarismo, con le conseguenze che tutto questo provoca. Pensiamo soltanto alla guerra scatenata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina. La soluzione deve quindi orientarsi innanzitutto verso l’adozione di riforme delle leggi elettorali perché siano in grado di rimediare, anche se in modo imperfetto, alle deviazioni dei sistemi democratici che abbiamo brevemente elencato in precedenza.

Mentre negli Stati Uniti il rinvigorimento della democrazia deve percorrere la faticosa, ma necessaria strada della ricomposizione della società civile, in Europa – e quindi a maggior ragione nel nostro paese – a questo sempre necessario obiettivo si debbono affiancare provvedimenti capaci di dare stabilità e forza ai governi senza annullare gli equilibri che garantiscono il corretto funzionamento della democrazia.

Governabilità ed equilibrio dei poteri non possono essere raggiunti tramite il dominio dell’esecutivo, ma tramite leggi elettorali capaci di assicurare la necessaria durata dei governi e la loro forza operativa, senza violare gli equilibri e le garanzie necessarie al mantenimento della democrazia. Invece di tutto si discute tranne che di una legge elettorale che restituisca ai cittadini la scelta dei parlamentari, da troppo tempo nominati dall’alto.

Nella situazione italiana penso che il delicato equilibrio fra capacità di governo e protezione dei diritti dei cittadini possa essere garantito non dal “premierato” proposto dall’attuale governo, ma da una semplice legge maggioritaria a doppio turno e collegi uninominali, come fu proposto quasi trent’anni fa nella prima tesi dell’Ulivo.

Nessuno pensa che questo sia un rimedio perfetto, ma è certamente quello che maggiormente riporta la capacità di scelta nelle mani dei cittadini e, nello stesso tempo, rende il governo capace di decidere e di durare.

Non abbiamo bisogno di rischiose rivoluzioni, ma delle correzioni necessarie per fare in modo che gli elettori siano in grado non solo di potere scegliere nel presente, ma di essere sicuri di potere scegliere anche in futuro.

 

]]>
Nuovi equilibri: il dialogo necessario tra Cina e Occidente http://www.romanoprodi.it/articoli/nuovi-equilibri-il-dialogo-necessario-tra-cina-e-occidente_20863.html Sat, 09 Mar 2024 09:00:28 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20863

Nuovi equilibri – Il dialogo necessario tra la Cina e l’Occidente

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 09 marzo 2024

Ogni anno, all’inizio di marzo, il Primo Ministro cinese, di fronte ai tre mila delegati del Congresso Nazionale del Popolo, illustra lo stato di fatto dell’economia nazionale, presentando gli obiettivi per i successivi dodici mesi. In teoria nel discorso di Li Qiang non vi è nulla  di sorprendente.

Pur ammettendo che lo sviluppo dell’economia cinese non è ancora solido, ha sostanzialmente ripetuto gli obiettivi dello scorso anno: una crescita del 5%, un deficit del 3% e una spesa militare del 7,2%. Non siamo naturalmente all’altezza dei gloriosi tassi di sviluppo del passato ma, dato il livello di medio reddito raggiunto dalla Cina, si può pensare ad una situazione di sufficiente equilibrio.

Gli elementi di squilibrio sono invece tanti e, sotto molti aspetti, preoccupanti. La crescita si fonda infatti ancora su uno sviluppo delle esportazioni pari al 20,7% del Prodotto Interno Lordo Cinese, il che, data l’enorme dimensione raggiunta dall’economia del paese, produce un surplus di 300 miliardi di dollari nei confronti dell’Europa e quasi altrettanti nei confronti degli Stati Uniti, nonostante i dazi imposti da Trump e confermati da Biden.

Si tratta di un surplus ritenuto politicamente e socialmente insopportabile, che è all’origine dei crescenti malumori politici e delle diffuse tensioni sociali.

Questo disequilibrio è frutto della difficoltà, e comunque della non decisione, di sostituire l’eccesso delle esportazioni con la necessaria crescita del consumo interno. Nonostante la crisi dell’edilizia residenziale e nonostante che l’impressionate processo di investimenti nelle infrastrutture volga sostanzialmente al termine, il tasso di investimento rimane estremamente elevato (intorno al 40% del PIL) mentre i consumi interni si presentano depressi, sia perché sono aumentati i tassi di interesse, ma soprattutto perché, sia pure con il possibile obiettivo di migliorare gli equilibri sociali, vengono tenuti compressi i salari del settore pubblico e varie forme di restrizione della domanda. Bisogna inoltre tenere presente che la scarsa presenza del welfare, induce a risparmiare e non a spendere.

Non bisogna inoltre trascurare il fatto che l’alto livello di disoccupazione giovanile, elemento così nuovo nella vita cinese dell’ultima generazione, induce le famiglie a comportamenti di spesa estremamente prudenti. Di conseguenza i consumi, invece di riequilibrare con la loro crescita l’eccesso delle esportazioni, si mantengono deboli, mentre il tasso di risparmio rimane così elevato da avvicinarsi alla somma del risparmio americano ed europeo messi insieme. Il livello dei prezzi dei consumi interni è quindi continuamente calato ed è ancora in calo, con una conseguente lunga depressione dei mercati finanziari e delle quotazioni delle imprese, che hanno raggiunto livelli minimi rispetto al passato, anche se hanno registrato qualche recente segnale di ripresa.

Non è comunque facile interpretare le ragioni che portano a rallentare la necessaria conversione verso il mercato interno e che, di conseguenza, allarmano i mercati internazionali provocando turbamenti profondi e gravidi di conseguenze.

Basta pensare a quanto è avvenuto nel settore delle energie alternative, con la quasi totale eliminazione dei concorrenti internazionali nella produzione dei pannelli solari e quanto si sta profilando nell’ancora più importante mercato delle auto elettriche e delle batterie.

La battaglia, in questo campo, si presenta di dimensioni ancora più ampie ed aggressive. È sufficiente pensare che, fra i colossi come la BYD e le imprese minori, vi sono in Cina oltre duecento produttori di automobili elettriche, con una potenziale capacità molto superiore a quella di tutto il resto del mondo messo insieme.

Una capacità produttiva che, anche per le limitazioni del mercato interno, sta facendo ogni sforzo per conquistare i mercati internazionali. Se non si aprirà quindi un dialogo fra Stati Uniti, Europa e Cina (come è assai improbabile dato l’attuale quadro politico) inizierà fatalmente una battaglia a colpi di dazi e restrizioni che non gioverà certo agli equilibri  e alla crescita dell’economia mondiale.

Il livello di queste barriere dipenderà naturalmente dalla capacità di lobby dei produttori europei su Bruxelles e dalla vittoria di Biden o di Trump a Washington.

Tuttavia il quadro presente, con le differenze dei costi, le dimensioni dei sussidi pubblici e la diversità delle strutture produttive, fa pensare ad una inevitabile e feroce lotta di mercato, a cui si affiancheranno numerosi investimenti per la costruzione di impianti produttivi nei mercati esteri.

Si tratterà di un’inversione rispetto al passato: non più investimenti europei, americani o giapponesi in Cina ma in direzione opposta, per attrarre i quali i paesi europei sono già in forte concorrenza fra di loro.

La strategia dell’export cinese ha cambiato direzione, accentuando la propria attenzione verso i mercati in via di sviluppo che, già negli ultimi mesi, importano beni cinesi in maggior quantità rispetto ai paesi maggiormente sviluppati.

Si tratta di una conversione non sostitutiva, non facile, non breve e assai costosa per le diverse condizioni di mercato e per i diversi livelli dei prezzi ma, soprattutto, costituirà un altro passo in avanti verso l’ulteriore pericolosa divisione del mondo fra, come si suol dire, il West contro il Rest. Una divisione che non giova a nessuno. Sembra però che la Cina e l’Occidente facciano a gara per rendere più difficile una futura costruttiva convivenza nel nostro pianeta.

 

]]>
Sfida digitale: la via italiana per l’IA e il divario da colmare http://www.romanoprodi.it/articoli/sfida-digitale-la-via-italiana-per-lia-e-il-divario-da-colmare_20849.html Sat, 02 Mar 2024 09:00:56 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20849

Sfida globale – La via italiana per l’IA e il divario da colmare

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 02 marzo 2024

Non sono un esperto di intelligenza artificiale, così come non sono un esperto di energia elettrica. Ciò non toglie che nella mia non breve vita mi sia reso conto di quanto l’elettricità abbia rivoluzionato non solo il modo di produrre, ma il funzionamento dell’intero pianeta.

Mi suscita quindi una certa impressione leggere che i veri esperti amano tracciare un parallelo fra le due rivoluzioni. Questo perché anche l’intelligenza artificiale è in grado di incidere in profondità nella nostra vita privata, nell’economia e nella stessa organizzazione della società.

L’impressionante mole di informazioni che riesce a raccogliere e ad organizzare tocca tutti i possibili settori: dall’industria alla scuola, dalla ricerca al credito, dal commercio alla santità, fino alle telecomunicazioni.

Quando nello scorso anno l’IA è divenuta nota al largo pubblico, ho immediatamente pensato che avrebbe reso inutile la compilazione delle tesi di laurea dato che è in grado di raccogliere e mettere in ordine i necessari elementi di conoscenza in un istante, mentre un laureando deve impiegare mesi di lavoro.

Tuttavia solo gli esperti erano a conoscenza che essa stava già rivoluzionando la scienza medica producendo progressi con una rapidità senza precedenti nella cura dei tumori e che era già largamente adottata non solo da Amazon per ottimizzare l’approvvigionamento dei beni da consegnare o da Airbnb per le prenotazioni alberghiere, ma già da innumerevoli imprese per ottimizzare i sistemi produttivi e distributivi. Ed anche dalle Pubbliche Amministrazioni per mettere ordine alla mole dei dati in loro possesso.

La rivoluzione dell’IA ha ora cominciato a diffondersi con una velocità e una pervasività infinitamente superiore a quella dell’elettricità. I protagonisti di questa rivoluzione sono naturalmente i giganti della rete, a cominciare dai colossi americani, due dei quali (Microsoft e Apple) hanno una capitalizzazione di borsa che supera largamente l’intero PIL italiano.

Nel mondo sono ormai più di 40.000 le imprese specializzate nell’IA: metà negli Stati Uniti, un 20% fra Gran Bretagna, Francia e Germania e il resto sparso per tutto il pianeta, con una presenza trascurabile nel nostro paese.

A questo proposito, proseguendo nel pur improprio parallelo fra elettricità  e intelligenza artificiale, non può non venirmi in mente la centrale termoelettrica di Santa Redegonda, costruita nel 1883 a poche decine di metri dal Duomo di Milano.

Non è possibile dimenticarla perché era la seconda al mondo e la prima in Europa. Nell’IA, invece, occupiamo un ruolo assolutamente trascurabile anche nei confronti degli altri grandi paesi europei, che operano con una duplice strategia: attrarre gli investimenti americani e sviluppare in parallelo un know how nazionale.

Proprio negli scorsi giorni Microsoft ha deciso di investire 3,2 miliardi di dollari in Germania e, nel contempo, il governo tedesco ha presentato un progetto di sviluppo di una rete nazionale del settore.

In Francia Google ha formato 8.000 esperti e nei giorni scorsi ha inaugurato, con la presenza di mezzo governo, un centro di ricerca con oltre 300 ingegneri e ricercatori. L’obiettivo, esplicitato da tutti i politici presenti, è di fare di Parigi il grande centro di riferimento per l’IA europea.

Un centro che affianca a Google la presenza dell’IBM, della Samsung e della Fujitsu e che si propone di organizzare attorno ad esso grandi scuole di specializzazione, la formazione di ricercatori e lo sviluppo di start up.

E, quello che più conta, insieme al rapporto con i colossi internazionali, viene spinto l’uso dell’open source come strumento di maggiore libertà e autonomia. A questo si affianca l’obiettivo di formare 100.000 professionisti abili nell’uso dell’intelligenza artificiale, obiettivo che più di ogni altro contribuisce ad aumentare la produttività dell’intero sistema paese.

In Italia non si sta facendo né una cosa né l’altra. Abbiamo corteggiato Musk, ma non è servito a nulla. A differenza dei nostri partner, nei confronti della tecnologia abbiamo un atteggiamento da meri consumatori, non un’ambizione da produttori.

Il cloud della PA, anche quello che si potrebbe acquisire in open source da fornitori nazionali, è affidato a Google e, per proseguire con esempi concreti, la posta elettronica della maggior parte delle Università è stata recentemente delegata a Microsoft, senza che attorno ad esse vengano sviluppate istituzioni simili a quelle francesi. Anche nell’IA, quindi, i grandi leader mondiali agiscono in Italia sostanzialmente come semplici venditori.

Abbiamo certamente iniziative di grande interesse, soprattutto nelle biotecnologie, ma nulla portato a livello di sistema. Eppure già nel 2017 era stata presentata una proposta di legge come “Delega al Governo per la disciplina e lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale” (proposta di Stefano Quintarelli) nella quale si proponeva una strategia per preparare l’Italia ad avere, se non una poltrona, almeno uno strapuntino nel grande treno dell’IA.

Già da allora si prospettava infatti la necessità di istituire presso la Presidenza del Consiglio un comitato permanente per costruire una via italiana all’IA, promuovendo, con le necessarie risorse, la formazione e l’attrazione di nuovi talenti, incentivando la nascita di start up, promuovendo l’uso dell’IA nella Pubblica Amministrazione e, soprattutto, nelle Piccole e Medie Imprese che non potranno nemmeno vivere senza usufruire delle prospettive che solo l’IA può offrire.

Un compito che l’Italia può oggi perseguire con maggiori possibilità di successo utilizzando l’enorme capacità di calcolo già installata nel progetto Leonardo.

Agendo in questa direzione non arriveremo probabilmente al primato europeo dell’antica Santa Redegonda, ma potremo almeno illuminarci abbondantemente con la nuova elettricità.

 

]]>
Obbiettivo green: gli strumenti (in)adeguati per le politiche ambientali http://www.romanoprodi.it/articoli/obbiettivo-green-gli-strumenti-inadeguati-per-le-politiche-ambientali_20825.html Sat, 24 Feb 2024 09:00:32 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20825

Obbiettivo green – Gli strumenti (in)adeguati per le politiche ambientali

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 24 febbraio 2024

Si sa che mondo è pieno di contraddizioni, ma non è facile capire come possano stare insieme i messaggi quasi trionfalistici sui progressi delle nuove energie verdi con i dati riguardanti i futuri equilibri ambientali del pianeta.

Iniziamo le nostre riflessioni rilevando che l’anno appena trascorso ha segnato il nuovo record assoluto della produzione e dell’uso del carbone di tutta la storia dell’umanità. Non solo si è arrivati al consumo di 8,55 miliardi (sottolineo miliardi) di tonnellate ma, a causa dell’aumento del prezzo del gas naturale, si è preferito un po’ ovunque ricorrere al carbone, mettendo in cantiere, soprattutto nel continente asiatico, centinaia di nuove centrali a combustibile solido.

I progetti di centrali a carbone della sola Cina sono comparabili con le pur ottimistiche previsioni di crescita di tutte le rinnovabili in Europa nel prossimo quinquennio (circa 400GW versus 530GW). Aspetto di particolare rilevanza anche per il futuro, dato che una qualsiasi nuova centrale ha una durata di almeno alcuni decenni.

Quando dal carbone si passa al petrolio le cose non stanno diversamente. Non solo il consumo è molto elevato e i prezzi si mantengono sostenuti (oltre 80 dollari al barile), ma l’International Energy Agency prevede in aumento, dagli attuali 102 milioni di barili al giorno, ad un nuovo massimo storico di 108 milioni nel 2028. Ancora più preoccupanti sono le previsioni dell’OPEC (l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) che non solo proiettano il consumo a 110milioni di barili al giorno nei prossimi cinque anni, ma ritengono che continuerà ad aumentare anche nei vent’anni successivi.

A questo punto nasce un interrogativo laterale, ma non certo di scarsa importanza: quale sarà in futuro il livello del prezzo del gas e del petrolio? Bisogna infatti tenere in considerazione che la condivisa ipotesi del “rapido” passaggio alle nuove energie ha fatto calare in tutto il mondo gli investimenti nella ricerca e nella messa a punto di nuovi giacimenti.

Si prevedeva un calo della domanda e si è invece di fronte a una possibile scarsità dell’offerta. In parallelo le energie rinnovabili, pur sospinte da incentivi poderosi, non raggiungono ancora il 5% dell’energia totale consumata a livello mondiale.

Nello stesso tempo (come nota l’Economist) sono crollati i prezzi dei minerali rari che costituiscono la componente fondamentale delle batterie per le auto elettriche. Nell’ultimo anno è calato del 50% il prezzo del nickel e addirittura dell’80% quello del litio, fino ad ora esempio quasi scolastico di scarsità.

Questo può anche dipendere dal possibile arrivo sul mercato di nuove batterie che non hanno bisogno di questi metalli rari, ma l’ipotesi per ora più concreta è che la domanda di auto elettriche, pur aumentata in modo robusto, non sia cresciuta come previsto tanto che la Volkswagen, non solo a causa della concorrenza cinese, ha visto diminuire la percentuale di auto elettriche sul totale delle vetture vendute.

A loro volta la GM e la Ford hanno rinviato i propri programmi di lancio delle auto che hanno come motore le batterie. Per non parlare dell’opposizione alle nuove politiche energetiche di diversi stati americani a maggioranza repubblicana.

Tutto questo non deve naturalmente spingere a rallentare il nostro cammino per arrivare al necessario equilibrio ambientale. Il cammino deve essere anzi percorso con più vigore, ma con politiche pragmatiche, razionali ed eque. Politiche capaci di raggiungere l’obiettivo, quindi più condivise sul piano sociale in modo da evitare il diffondersi dei movimenti di protesta.

Un primo aspetto è già apparso evidente nell’ultima COP 28 di Dubai, dove non si sono potute affrontare con sufficienti aiuti finanziari le difficoltà dei paesi emergenti, affamati di energia, ma non in grado di sostenere i costi per produrla in modo pulito. Nessuno a Dubai ha nemmeno tentato di convincere l’India ad abbandonare il carbone come il combustibile più conveniente per il suo futuro sviluppo!

In secondo luogo, i dati mostrati in precedenza, mettono in luce come sia sempre problematico puntare su una sola tecnologia, anche se molto promettente come l’auto elettrica e come sia comunque sbagliato proibire la possibilità di sviluppare tecniche alternative, come il caso delle auto a motore endogeno.

E’ infatti sempre opportuno mirare al risultato e non vincolarsi ad un solo modo per raggiungerlo. Vi sono infatti altre tecnologie che meritano di essere incoraggiate, oltre al vento e al sole.

Pensiamo ad esempio alle potenzialità delle pompe di calore e all’attenzione che bisogna riservare al nucleare.

Soprattutto accelerando la fase applicativa del nuovo nucleare originato da piccole centrali con livelli di sicurezza e facilità di trattamento dei rifiuti senza precedenti.

Queste due ultime fonti di energia pulita sono di particolare interesse per il nostro paese che opera in posizione di potenziale preminenza in entrambi i campi, mentre siamo ormai confinati al ruolo di importatori totali nel caso delle batterie e quasi totali nei beni strumentali dedicati all’eolico e al solare.

E’ giusto e doveroso alzare continuamente l’asticella della politica ambientale, ma è altrettanto doveroso fornire ai cittadini le tecniche e i muscoli necessari per saltare più in alto.

Le crescenti opposizioni alle politiche ambientali ci insegnano che bisogna continuamente aggiornarle.

Queste politiche non sono infatti un dogma, ma solo uno strumento per raggiungere l’obiettivo. E gli strumenti, per loro natura, debbono essere continuamente rivisti e adeguati.

 

]]>
L’avviso di Trump e l’obbiettivo (difficile) di una difesa europea http://www.romanoprodi.it/articoli/chiunque-vinca-in-usa-e-indispensabile-un-esercito-europeo_20801.html Sat, 17 Feb 2024 09:00:42 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20801

L’avviso di Trump – L’obbiettivo (difficile) di una difesa europea

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 17 febbraio 2024

Non è la prima volta che Trump, con le sue improvvise e improvvide affermazioni, mette in allarme amici e alleati. Sabato scorso ha tuttavia passato ogni misura. Non si è limitato a spingere gli europei ad aumentare le spese per la difesa e nemmeno a dire che, in caso contrario, non avrebbe mosso un dito per difenderli, ma ha affermato di essere addirittura disponibile ad incoraggiare un eventuale attacco nei confronti dei paesi europei che non accettano di aumentare le loro spese militari.

Si potrebbe anche pensare che un’affermazione così esplosiva sia andata sopra le righe, in quanto pronunciata nel corso di una campagna elettorale eterna nel tempo e condotta senza esclusione di colpi. E non solo non vi è stata alcuna rettifica da parte di Trump ma, al contrario, abbiamo assistito a un robusto sostegno da parte dei collaboratori a lui più vicini.

Dato che questa presa di posizione si accompagna ad una serie di indagini demoscopiche secondo le quali la sua vittoria elettorale non è affatto improbabile, quest’esternazione ha prodotto un vero e proprio terremoto nei paesi della Nato.

In tutti i settantacinque anni di vita dell’Alleanza non era stata mai messa in dubbio la validità dell’articolo cinque, dell’Alleanza stessa, in base al quale l’eventuale attacco contro un paese membro implica la solidale difesa da parte di tutti gli altri.

Si tratta quindi della violazione del patto fondamentale che lega fra di loro i membri della Nato e che, nei lunghi decenni di vita dell’Alleanza, era stato messo in atto proprio come segno di solidarietà nei confronti degli Stati Uniti dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre del 2001.

La prima conseguenza di quest’affermazione è, naturalmente, una crescente spinta verso l’unilateralismo che sta mettendo radici sempre più profonde nel Partito Repubblicano, come estensione dell’applicazione dell’America First. Un unilateralismo che si è già manifestato con il blocco dello stanziamento dei 60 miliardi di dollari proposti da Biden in aiuto all’Ucraina.

La seconda conseguenza è l’inizio di un vero e proprio senso di smarrimento nelle cancellerie europee che hanno sempre affidato la propria sicurezza allo scudo protettivo americano, ritenuto per definizione scontato e incondizionato.

Tra i responsabili della politica europea è cominciata una preoccupata riflessione sulle modalità e le conseguenze del doversi difendere senza lo scudo americano. Si era sempre pensato a questo come un’ipotesi così lontana da non essere nemmeno presa in considerazione.

Improvvisamente si è costretti a parlare di quelle che sarebbero le conseguenze del dover garantire la propria sicurezza senza l’America che, inoltre, sposta sempre più la sua attenzione verso l’Oceano Pacifico.

Il primo pensiero va naturalmente a un aumento delle spese militari, ma non è questo il solo problema. Anzi non è nemmeno il primo problema perché un maggiore impegno finanziario serve ben poco se non si mettono insieme le strutture decisionali, l’intelligence, le industrie degli armamenti, i sistemi di comunicazione e tutti gli apparati che sono necessari per costruire un’efficiente difesa.

Il possesso del sistema militare complessivo è sempre stato una prerogativa esclusiva degli Stati Uniti. Per comprenderne l’importanza basta riflettere sul fatto che, nella recente guerra di Libia, Francia e Gran Bretagna non sarebbero nemmeno state in grado di prevalere sulle milizie di Gheddafi se non fosse venuto in loro soccorso il sistema di comunicazione e di logistica americano.

Solo l’esercito degli Stati Uniti dispone infatti di un sistema di difesa completo e autosufficiente.

Sommando la spesa complessiva di tutti i paesi europei in un unico progetto si potrebbe invece garantire la loro sicurezza in grado molto elevato.

Obiettivo che non può essere raggiunto quando non è nemmeno chiarita quale sarebbe la struttura istituzionale dedicata a decidere la strategia da adottare di fronte a una possibile aggressione.

E’ tuttavia indubbio che le sconsiderate parole di Trump siano suonate come un segnale d’allarme, anche se accolto in modo purtroppo assai differente nelle diverse piazze europee.

C’è chi, mostrando scetticismo nei confronti di un’antica possibile solidarietà europea, ha reagito proponendo un legame unilaterale dei singoli paesi con gli Stati Uniti, formalizzando in tal modo un rapporto di dipendenza quasi coloniale. Vi è stata anche una riunione del così detto triangolo di Weimar, nell’ambito del quale Germania, Polonia e Francia si sono impegnate a rafforzare la loro collaborazione.

Questi tre paesi hanno confermato l’aumento delle loro spese militari e si sono in qualche modo prenotati a costituire un primo nucleo di difesa europea, anche se nessuno ha finora accettato di abbandonare la propria autonomia strategica.

Inoltre, al vertice di Monaco sulla Sicurezza, la presidente della Commissione Von der Leyen ha proposto di superare, con una maggiore cooperazione, la troppo frammentata industria militare europea.

Le brutali espressioni di Trump hanno quindi avuto almeno la conseguenza positiva di portare di nuovo sul tavolo il problema della difesa europea, con l’obiettivo di costruire una forza comune ancora in stretta alleanza con gli Stati Uniti, ma abbastanza organizzata ed autorevole per essere in grado di partecipare in modo attivo alle più importanti decisioni strategiche e di avere un ruolo di leadership nei casi in cui sia direttamente in gioco l’interesse europeo. Si tratta di obiettivi molto difficili da raggiungere, ma che debbono essere perseguiti sia che vinca Trump sia che prevalga Biden.

 

]]>
Stellantis: il mercato dell’auto e le mosse per ripartire http://www.romanoprodi.it/articoli/stellantis-il-mercato-dellauto-e-le-mosse-per-ripartire_20771.html Thu, 08 Feb 2024 09:00:22 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20771

Il caso Stellantis – Il mercato dell’auto e le mosse per ripartire

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 08 febbraio 2024

Si discute molto sulle improvvide dichiarazioni di Tavares che ha chiesto copiosi sussidi per conservare in Italia il residuo di capacità produttiva che Stellantis ancora possiede nel nostro paese. Queste dichiarazioni non costituiscono una novità. Non sono che un capitolo della lunga storia che riguarda la progressiva estinzione dell’industria automobilistica italiana.

Prendendo in esame solo gli ultimi vent’anni ricordiamo che, di fronte alla durezza della concorrenza e a all’ormai prolungata insufficienza degli investimenti, gli azionisti della Fiat, nell’estate del 2004, chiamarono alla massima responsabilità dell’azienda non un esperto di ingegneria, ma un genio della finanza.

Il compito di Marchionne era infatti salvaguardare il patrimonio degli azionisti messo a rischio da una situazione finanziaria disperata. Non aveva il mandato di creare, nella Fiat e attorno alla Fiat, una squadra vincente nella nuova concorrenza internazionale, ma di salvare il patrimonio degli azionisti. Il quasi impossibile compito fu svolto in modo assolutamente geniale e quasi insperato.

Marchionne, tuttavia, era cosciente e ha più volte resa esplicita la tesi che i nostri impianti fossero arretrati e sovradimensionati e che, quindi, fosse necessario ridurne la capacità produttiva, limitando gli investimenti, la ricerca e la produzione dei nuovi modelli.

Il conseguente calo degli addetti ha proceduto a ritmo inesorabile. Si è quindi arrivati alla creazione di Stellantis, dove la Fiat, risanata finanziariamente, anche se marginale dal punto di vista produttivo, ha potuto offrire agli azionisti una sicura protezione del proprio capitale nella nuova impresa sotto totale comando francese. La strategia del CEO di Stellantis è estremamente chiara: ridurre drasticamente i costi moltiplicando gli investimenti e le capacità produttive verso i paesi a basso costo del lavoro, come Serbia e Marocco.

Nello stesso tempo ogni funzione direttiva, dalla ricerca al marketing, dalla logistica alla finanza fino alla progettazione delle nuove auto elettriche, è trasferita in Francia, così come è sempre più francese la composizione dei quadri direttivi di medio ed alto livello.

D’altra parte era quanto il nostro giornale aveva previsto nel momento della nascita di Stellantis, appena erano state rese note la sua dirigenza, la composizione del suo consiglio di amministrazione e la partecipazione dello Stato francese.

A questo si sono aggiunte, oltre alla vendita della Magneti Marelli, le alienazioni degli immobili industriali svuotati dalle linee di produzione e il progressivo calo dei modelli, dei telai e dei motori di origine italiana. Non dobbiamo quindi stupirci se, dopo più di un secolo, la Fiat non è nemmeno leader nel ristretto mercato italiano.
Se nelle strategie aziendali di Stellantis comprendiamo anche il cuore delle auto elettriche, e cioè le batterie, l’accordo iniziale era di costruire tre impianti, uno in Germania, uno in Francia e uno in Italia.

Gli investimenti franco-tedeschi procedono senza sosta e la decisione sull’impianto italiano è rinviata al 2026. Il che significa che la fabbrica sarà realizzata solo se la capacità produttiva delle altre due non sarà sufficiente. Dato il forsennato numero di nuovi impianti di batterie in costruzione e dato il faticoso decollo dell’auto elettrica, è chiaro che l’impianto italiano ben difficilmente vedrà la luce.

Nel frattempo, in Italia, Stellantis offre incentivi cospicui a chiunque si dimetta, qualsiasi ruolo ricopra, ma continua a godere degli impressionanti sussidi forniti dalla cassa integrazione, alla quale viene fatto crescente ricorso anche quando si chiedono ulteriori aiuti pubblici.

In questa situazione, l’ipotesi di una partecipazione dello Stato italiano all’azionariato di Stellantis per bilanciare la presenza francese, appare vuota di ogni prospettiva concreta, dato che la strategia attuale è condivisa da tutti gli azionisti, compresa l’italiana Exor.

E ben poco cambierebbero le cose, se non in direzione di un’ulteriore nostra emarginazione, se si dovesse procedere verso la fusione tra il gruppo Stellantis e la Renault.

Date queste conclusioni, quale dovrà essere la strategia italiana del settore dell’automobile, dove abbiamo ancora una straordinaria presenza nella componentistica e nell’auto di alta gamma?

Il primo passo è in una politica di rafforzamento e concentrazione della componentistica stessa, dove esprimiamo grande eccellenza e riguardo alla quale non si deve nemmeno escludere un rinnovato rapporto con la Magneti Marelli, ancora alla ricerca di una propria strategia dopo il distacco dal gruppo Fiat.

Del tutto naturale è inoltre il rafforzamento delle produzioni di alta gamma, il cui mercato è in continua crescita nel mondo e nel quale il made in Italy fa premio su ogni altra origine, come è dimostrato dal recente cospicuo investimento del gruppo Volkswagen nella Lamborghini e, nel confinante campo motociclistico, nella Ducati.

Questi sono obiettivi quasi scontati, mentre più complicata è la possibilità di partecipare al grande processo di riorganizzazione mondiale in corso per attrarre altre case produttrici di auto elettriche o, comunque, di nuova tecnologia.

Un grande produttore non lo si fa arrivare solo con gli incentivi, soprattutto in un paese come l’Italia che non dispone certo di risorse cospicue, ma con un disegno politico capace di mettere in giusto rilievo le risorse critiche del paese. E di queste non manchiamo, anche perché possiamo accompagnarle con un costo del lavoro purtroppo molto inferiore a quello tedesco e a quello francese e con una produttività che, in tutti i settori della meccanica strumentale, non è certo inferiore a quella d’oltralpe.

Nella riorganizzazione in corso, sarebbe certo più facile attrarre nuovi protagonisti se si potesse disporre di un brand come Maserati o Alfa Romeo, marchi che non sembrano trovare un posto adeguato nella strategia di Stellantis.

Questo è tuttavia solo un sogno, come è difficile immaginare avere in Italia le fabbriche cinesi che stanno correndo verso tanti altri lidi europei. Una cosa però è certa: non possiamo fare nulla se non costruiamo una squadra di esperti capace di presentare nella loro giusta luce la risorse tecniche ed economiche del nostro paese. Dato che abbiamo sostanzialmente svuotato tutti i ministeri delle capacità necessarie, perché non cominciamo a costituire una squadra di una ventina di giovani specialisti che, guidati da un anziano ed esperto imprenditore, o dirigente, con il mandato dell’intero governo, presenti agli investitori internazionali le nostre potenzialità? Questo non vale solo per il settore dell’auto.

Da molti anni, infatti, nessuno viene a investire in una nuova impresa in Italia, anche se gli operatori internazionali continuano ad acquistare le nostre aziende e le filiali italiane delle multinazionali fanno profitti superiori alla media di tutte le imprese da loro possedute.

Solo il giorno in cui saremo in grado di attrarre nel nostro paese una cospicua presenza di uno dei grandi protagonisti dell’economia mondiale, l’Italia potrà uscire dai due decenni di bassa crescita che ha alle spalle.

 

]]>
Biden / Trump: gli scenari in Europa dopo il voto USA http://www.romanoprodi.it/articoli/biden-trump-quali-scenari-in-europa-dopo-il-voto-usa_20751.html Sat, 03 Feb 2024 09:00:28 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20751

La corsa a due – Quali scenari in Europa dopo il voto negli Usa

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 03 febbraio 2024

Nove mesi ci separano dalle elezioni e quasi un anno dall’insediamento del nuovo presidente, ma gli Stati Uniti sono già da tempo in campagna elettorale. Tutto questo fa pensare non solo all’America, ma ai destini di tutte le democrazie.

I paesi democratici, infatti, sono quasi sempre in campagna elettorale, con le tensioni e le difficoltà nel prendere le decisioni che il lungo periodo pre – elettorale necessariamente comporta. Il che è ancora più vero per gli Stati Uniti, dove le rotture del tessuto sociale si sono negli ultimi anni moltiplicate, con una divisione crescente fra città e campagna, stati costieri e America profonda, bianchi e neri, ricchi e poveri, istruiti e meno istruiti e, naturalmente, con un divario crescente fra democratici e repubblicani.

Se non succederanno avvenimenti imprevisti (sempre possibili anche se improbabili) è terminata la prima fase di quest’eterna battaglia, con la scelta dei due candidati. Non vi è alcuna novità in proposito, in quanto il candidato democratico, Joe Biden, è l’attuale presidente in carica e il suo avversario, il repubblicano Donald Trump, è stato presidente dal 2017 al 2021.

Biden ha deciso di ripresentarsi e la sua candidatura è ritenuta quasi naturale, nonostante la sua età non più giovanile e la sua forma fisica non più atletica. Il presidente in carica è generalmente favorito, e questo dovrebbe essere anche il caso di Biden, soprattutto perché l’economia sta andando sostanzialmente bene, con un tasso di crescita più che soddisfacente e una disoccupazione in diminuzione.

Le analisi demoscopiche ci dicono invece che gli elettori appaiono insoddisfatti non solo perché preoccupati per l’inflazione, che peraltro colpisce tutto il mondo, ma soprattutto per la perdita di identità della classe media, tradizionalmente sostenitrice del partito democratico. Una classe media resa più debole dall’aumento della distanza fra ricchi e poveri e impaurita dalla prospettiva che la crescente ondata degli immigrati renda il paese più fragile e insicuro.

E’ impressionante notare come l’obiettivo della chiusura delle frontiere sia diventato dominante in un paese che è sempre stato di esempio al mondo per avere fondato la propria ricchezza e il proprio sviluppo sull’immigrazione.

Nonostante il presidente Biden abbia molto indurito la sua precedente politica migratoria, il tema specifico della sicurezza delle frontiere per frenare l’immigrazione porta la fiducia nei confronti di Trump trenta punti sopra rispetto al candidato democratico.

Una società impaurita tende fatalmente ad affidarsi a colui che appare essere più muscoloso. Per questo motivo Trump ha finora vinto tutte le primarie del partito repubblicano con uno scarto che non ha precedenti e, da quanto si legge nei sondaggi, facendo progressi anche fra tutti gli elettori americani.

Avremo comunque il tempo (e anche il dovere) di seguire questi lunghi nove mesi di campagna elettorale, anche solo perché gli Stati Uniti sono il paese che più influisce sulla politica mondiale.

Trascurando per ora la possibilità non ipotetica che Trump assuma una deriva pericolosamente autoritaria nella politica interna, ci limitiamo ora a considerare che i due candidati prospettano una politica del tutto divergente riguardo ai rapporti con l’Europa.

Non è infatti facile dimenticare gli attacchi dell’allora presidente Trump ad Angela Merkel e la provocazione nei confronti della presidente della Commissione Europea, alla quale ha dichiarato esplicitamente che, se l’Europa venisse attaccata, gli Stati Uniti non correrebbero certo ad aiutarla.

Un secondo mandato di Trump, che viene da lui stesso presentato come più duro del primo, ci obbligherebbe quindi a ripensare all’intera costruzione non solo dell’Unione Europea, ma anche del Patto Atlantico.

Uguali punti interrogativi si pongono sulla politica nei confronti della guerra in Ucraina, riguardo alla quale le prime conseguenze sono già in atto, perché la sola ipotesi di un cambiamento della politica americana rende assai problematica l’approvazione del pacchetto dei 61 miliardi di aiuti che Biden si era impegnato a versare per la difesa del paese.

Minori sarebbero forse le conseguenze nel campo economico. Biden ha infatti già adottato una politica che, tramite una combinazione di copiosi aiuti all’industria e al settore energetico, pone l’economia americana in sostanziale vantaggio rispetto a quella europea. E’ tuttavia assai probabile che l’intensità degli aiuti e l’innalzamento della protezione aumenterebbe nel caso di una vittoria di Trump.

Tutti questi elementi dovranno essere tenuti presenti nei prossimi mesi, in modo da preparare la linea della futura politica europea dopo le elezioni americane. In questo quadro di incertezza non vi deve invece essere alcun dubbio sulla necessità di rafforzare l’Unione Europea, ormai diventata indispensabile per la nostra sopravvivenza.

Per questo motivo le elezioni europee, che cadono giusto a metà del cammino che ci separa dalle elezioni americane, dovranno essere uno stimolo per costruire un’Europa capace di resistere a tutti i venti contrari che la storia è sempre in grado di preparare.

In ogni caso, il mutamento della situazione internazionale, richiede che l’Europa sia in grado di mettere in atto una maggiore unità e una maggiore capacità di azione.

 

]]>
Meloni resta forte perché manca alternativa. Conte decida dove stare http://www.romanoprodi.it/interviste/meloni-resta-forte-perche-manca-unalternativa-conte-decida-dove-stare_20739.html Tue, 30 Jan 2024 18:00:12 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20739

«Il centrodestra resta forte perché manca ancora un’alternativa. Conte? Decida dove stare»
Schlein? “Si ritrova nella situazione più difficile per un leader di partito”.
Il mio rapporto col Pd è di un nonno che dà affetto
Giorgia Meloni? “Sta diventando una polizza di assicurazione per Ursula von der Leyen”.

Intervista di Marco Ascione a Romano Prodi su Il Corriere della Sera del 30 gennaio 2024

Romano Prodi è al suo tavolo di lavoro, alla Fondazione per la collaborazione tra i popoli. Siamo in via Santo Stefano a Bologna, nel cuore della città a 30 all’ora (prima lamentazione del taxista, che subito si dichiara: sono di destra, ma non scherziamo, si tratta di un provvedimento sbagliato e basta). E anche di questo, dei contestati limiti imposti dal sindaco Matteo Lepore, parleremo. La chiacchierata con il due volte ex premier ed ex presidente della Commissione europea si dispiega tra fronti internazionali e fronti interni. Scenari che a volte si incrociano e coincidono.

Professore, a Roma è in corso il vertice Italia-Africa, con 25 capi di Stato, per lanciare il Piano Mattei. Per il governo italiano e per la strategia di Giorgia Meloni è un passaggio chiave.

“La scelta di guardare all’Africa è non solo giusta, ma anche necessaria. Dall’Africa dipende il nostro futuro. Non è facile dare un giudizio su una conferenza che sta cominciando solo ora, mentre stiamo parlando. Questo è, finora, soprattutto un piano per l’energia. E da solo non sarebbe determinante, anche solo per la scarsità delle risorse. Serve oggi un progetto più ampio portato avanti dall’Europa intera. Da sola l’Italia può fare ben poco per fronteggiare la forte penetrazione sistemica, in Africa, della Cina in campo economico e della Russia in campo politico. Non so quanto in accordo tra loro”.

Comunque sul piano Mattei l’Europa ha messo la faccia con Ursula von del Leyen, che spesso è a fianco di Giorgia Meloni, sostenendo le iniziative dell’Italia.

“Questa attenzione della presidente della Commissione Ue per l’Italia è straordinariamente intensa e profonda“.

C’entrano anche le prossime elezioni europee e la possibilità che popolari e socialisti possano avere bisogno del sostegno dell’Italia?

“La premier italiana sta diventando una sorta di polizza di assicurazione per von der Leyen in caso di incidente elettorale“.

A proposito di Europee, lei ha detto che Elly Schlein, così come tutti gli altri leader, non dovrebbe correre per Strasburgo se poi non intende andarci davvero.

“Io sostengo che presentarsi per attrarre voti senza poi ricoprire il ruolo rappresenta un distacco dalla volontà popolare e indebolisce la democrazia”.

A sinistra c’è chi obietta: si è sempre fatto così, perché dovremmo perdere voti se poi Meloni alle Europee si candida?

“A una domanda di principio rispondo con una risposta di principio. Al cittadino che vota dovrei forse consigliare di seguire l’esempio di Meloni?”.

Una eventuale vittoria di Trump sarebbe dirompente anche per il centrodestra in Italia?

“Una ipotesi del genere rimetterebbe in discussione l’intero scenario politico europeo e mondiale. Ci obbligherebbe a ridiscutere non solo i rapporti tra Europa e Stati Uniti, ma la stessa natura del Patto Atlantico“.

Sarebbe anche una spinta alla costituzione di un esercito europeo?

“L’esercito europeo e la politica estera comune sono indispensabili. Tuttavia nessuno può pensare a un esercito europeo in cui un solo Paese, la Francia, possegga l’arma nucleare e il diritto di veto all’Onu”.

Intervistato da Fazio, il leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte ha preferito non esprimersi sulla scelta tra Biden e Trump. Non ha senso, ha detto, che io mi metta per l’uno o per l’altro.

“Forse Conte aveva la tosse o un qualche impedimento che non gli ha consentito di rispondere. Per me è chiaro che non si può votare per Trump“.

È lo stesso Conte che sul MES ha votato diversamente dal Pd. Lei continua a pensare che possa essere un alleato per il Partito democratico?

“Tutto è possibile perché Conte deve ancora decidere dove sta”.

Il gradimento di questo governo, e in particolare di Meloni e del suo partito, resta alto nei sondaggi. Neppure le polemiche su Acca Larentia e sui saluti romani l’hanno minimamente intaccato. Che cosa non funziona nel racconto dell’opposizione?

“Secondo una recente analisi, l’Italia è uno dei pochi Paesi, se non l’unico, in cui lo stare al governo non danneggia i partiti che lo sostengono. Questo accade perché non c’è un’alternativa concreta. Non appena ci fosse, comincerebbe l’erosione”.

Ma fare leva sull’antifascismo per criticare il governo ha senso? Sono davvero ancorati a un passato che non passa?

“Mi preoccupa di più il presente. Il non volere affrontare la questione del debito a causa del legame troppo stretto con categorie che perderebbero i loro privilegi. O il regionalismo differenziato. O le decisioni sulle partite Iva. Più qualche riflessione sul futuro, a proposito di quella riforma del premierato che andrebbe a minare i poteri del presidente della Repubblica con rischi di pericolose derive“.

Nel Pd si dibatte molto di diritti. C’è bisogno di una legge sul fine vita?

“Il fine vita va regolato, ma non può implicare una disciplina di partito. Di nessun partito”.

Qual è il suo giudizio su Elly Schlein?

“È nella situazione più difficile in cui si possa trovare un leader. Per sciogliere nodi complessi serve tempo“.

Antonio Polito ha scritto sul Corriere che il Pd è un partito orfano che cerca il padre e ricorre sempre al Professore. Si riconosce?

“Ringrazio Polito, ma si sbaglia: non sono un padre ma un nonno che può somministrare affetto, ma non influenza e comando”.

Trent’anni fa Berlusconi scendeva in campo e sbaragliava la gioiosa macchina da guerra di Occhetto. Non si può dire che non l’avessero visto arrivare, ma è certo che lo sottovalutarono.

“Ero sicuro che avrebbe vinto lui. Ci feci anche una scommessa con un amico, un mio futuro sottosegretrario. Era troppo pervasiva e forte la sua onda. Si capiva bene che avrebbe sconvolto il sistema politico”

Un pregio e un difetto del Cavaliere?

“Il pregio: faceva capire a chiunque incontrasse che era la persona più importante al mondo. Il difetto? Che non era vero“.

Dice Meloni che la fusione tra Fiat e Psa è “una vendita ai francesi”.

“Evidentemente la premier ha letto anche articoli che ho scritto io sulla Fiat e i francesi. Ma aggiungo che trovo inaccettabile l’utilizzo di questo argomento per intaccare la libertà dei giornali”.

Professore è contento di vivere nella città dei 30 all’ora?

“La disciplina stradale va regolata anche con limiti come questo. Trovo sbagliato farne una campagna ideologica. Sarà la sperimentazione a correggere eventuali difetti”.

 

]]>
Europa: dobbiamo recuperarne la visione e il progetto http://www.romanoprodi.it/interviste/europa-dobbiamo-recuperarne-la-visione-e-il-progetto_20719.html Mon, 29 Jan 2024 10:05:26 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20719

Romano Prodi: “Cara Europa, dobbiamo recuperare il progetto e la visione che avevamo”
A sei mesi dal voto europeo, il professor Romano Prodi guarda al giorno dopo. E sogna 500mila giovani che uniscano il Mediterraneo

Intervista di Marianna Aprile a Romano Prodi su Oggi del 27 gennaio 2024

Mentre parliamo, l’Inno alla gioia suona tre volte. È la suoneria del cellulare di Romano Prodi («La musica migliore mai scritta nella storia dell’umanità, non ti stanchi mai di ascoltarla»), ma anche l’inno che l’Europa si è data fin dal 1972, prima ancora che l’Unione nascesse.

La colonna sonora discreta e precisa di questa conversazione all’inizio dell’anno delle elezioni europee e nel giorno del secondo anniversario della morte del presidente del Parlamento europeo David Sassoli, cui il professore era molto legato: «Un vero europeista, che intendeva l’Europa come unione tra popoli, non solo tra governi. È il messaggio più profondo che ci ha lasciato. In un tempo in cui la democrazia ha tempi corti, Sassoli sapeva immaginare disegni di lungo periodo. Quando gli parlai della costruzione delle Università del Mediterraneo sposò immediatamente il progetto».

Di che cosa si tratta?

«Trenta università, sulle due sponde del Mediterraneo, nord e sud, paritarie: da Napoli a Tunisi, da Barcellona a Rabat. Stesso numero di studenti e docenti, un programma che preveda due anni di studi a sud e due a nord. Se prendiamo 500 mila ragazzi e li facciamo studiare insieme così, lavoreranno, faranno ricerca, si sposeranno, si impasticceranno tra loro e l’Europa riconquisterebbe il Mediterraneo senza far nulla. Invece lo stiamo lasciando a russi e turchi».

Un “Piano Atenei”, invece del Piano Mattei. A proposito, lei ha capito in che cosa consista il Piano Mattei del governo Meloni per l’Africa?

«No. Ma che un governo di destra abbia scelto di indicarlo col nome di un imprenditore di sinistra è abbastanza interessante».

Professore, come sta l’Europa?

«Non bene. Due anni fa, nel dramma della pandemia, avevamo colto un messaggio: solo l’Europa può salvarci. Poi siamo ricaduti nel “vizio” pre-Covid: il primato degli obiettivi nazionali su quelli europei. Ma la debolezza delle democrazie è un dramma mondiale. Nel 2024, 2 miliardi di adulti, metà della popolazione mondiale, andranno a votare, in Stati Uniti, Europa, India, in Russia, dove peraltro il risultato è scontato. Però in India ci sono tensioni fortissime, negli Stati Uniti uno dei due contendenti, peraltro avanti nei sondaggi, lancia vere e proprie accuse alla democrazia. La tendenza è di apprezzarla quando si vuole salire al potere e diventarle insofferenti una volta al governo. E così la democrazia è apparentemente fiorente ma in realtà affaticata. E faticosa».

Che cosa la logora?

«Lunghissime campagne elettorali e il trionfo dell’analisi demoscopica fanno sì che, dagli Stati Uniti all’Italia, si adatti la politica al consenso del momento e la politica estera all’interesse di quella nazionale. Nessuno fa più progetti a lungo termine. E poi c’è l’astensionismo, figlio della mancanza di aspettative soprattutto tra i giovani, che colgono questa assenza di un progetto nella politica».

Il 2024 è iniziato con l’addio a un padre dell’Europa, Jacques Delors. La sua lezione più preziosa?

«Un rarissimo mix tra concretezza e idealismo che gli ha consentito di costruire il mercato comune riuscendo contestualmente a far intravedere il futuro dell’Europa. Oggi di idealisti concreti come lui non ne vedo. Con la frammentazione della democrazia, le coalizioni sono diventate necessarie ai governi, ma allo stesso tempo li rendono inefficaci. In Italia accade da molti anni. È uno strano Paese il nostro, forse i secoli di servitù ci hanno resi politicamente più “creativi”. Abbiamo sempre anticipato i cambiamenti che hanno turbato la vita democratica: Mussolini è stato il maestro di Hitler, Berlusconi di Trump, i Cinquestelle maestri dei populismi».

Che succede se Trump vince le elezioni americane del prossimo novembre?

«Che forse l’Europa si sveglia. La posizione di Trump sull’Europa è nota e l’America diventerebbe nostra nemica, o almeno non amica. La domanda è: in quel caso sapremmo reagire? Un’Europa che si sentisse sola avrebbe una maggiore spinta verso il rafforzamento delle proprie istituzioni, costruzione di una difesa e di una politica estera comuni? Il nostro futuro sarà indotto più dalla necessità di far fronte allo strapotere americano e cinese che dalla visione».

E l’Italia?

«Dicendo un po’ sì e un po’ no all’Europa perde il suo ruolo politico. Il Consiglio europeo è un club la cui appartenenza non può essere parziale né intermittente e in cui si deve essere affidabili. Agendo come col MES, si perde peso lì dove si decide».

Crede che a qualcuno questo isolamento europeo possa non dispiacere?

«No. C’è una tale paura della nuova Guerra Fredda in cui siamo che l’Europa resterà comunque assieme. La sfida è che riesca a prendere decisioni. È un cammino faticoso, ma dopo Brexit a nessuno verrà più voglia di abbandonare l’Europa. Neanche a Orbàn, che pure urla molto. Dobbiamo però recuperare la visione che abbiamo perso. Vede, ai tempi dell’Euro facevamo molti vertici bilaterali con Cina, Stati Uniti, Russia: si ragionava di tutto, dal burro agli ingranaggi, ai rifornimenti idrici, alle migrazioni. Ma allora il presidente cinese Hu Jintao era interessato quasi solo all’Euro e quando capì che poteva prenderlo nelle sue riserve monetarie disse: “Avremo nel portafoglio tanti Euro quanti dollari, perché se accanto al dollaro c’è l’Euro c’è posto anche per la nostra moneta”. Aveva colto il progetto di un’Europa paritaria e mediatrice tra Cina e Stati Uniti. Oggi quel sogno è andato a farsi friggere e abbiamo perso un ruolo che anche gli altri pensavano avremmo potuto ricoprire».

Come si aspetta che vadano le Europee?

«Stiamo assistendo al grave errore di viverle come la somma di elezioni nazionali, ma non credo assisteremo a grandi scossoni. Poi però, siccome la Storia abbonda di sfide, arriverà una crisi a mettere alla prova l’Europa. Il tema è la lentezza di questo cammino: la vita umana è limitata e io avrei voluto vedere nella mia vita un completamento del progetto europeo».

Cosa potrebbe accelerare questo cammino?

«La guerra in Ucraina ha determinato, in un solo giorno, una rivoluzione nella politica tedesca, che dopo oltre 70 anni ha ricominciato a investire, molto, nella difesa. Nel giro di qualche anno, questo cambierà la natura dell’Europa, che si è sempre retta su un motore a due pistoni, tedesco e francese, con l’Italia decisiva per la formazione di una volontà comune. Se ora la Francia starà ferma, l’Europa sarà a guida tedesca. Per evitarlo, la Francia dovrebbe mettere a disposizione della crescita europea due punti di forza che solo lei possiede: il diritto di veto nel consiglio di Sicurezza dell’Onu e l’arma nucleare. Non lo farà, perché le manca il senso del futuro, come quando bocciò con un referendum la Costituzione europea per pura nostalgia del passato, dell’Impero, la stessa che ha portato alla Brexit: gli ex imperi guidano guardando lo specchietto retrovisore. Lo facciamo anche noi, e senza neanche un impero alle spalle».

C’è nostalgia pure degli aspetti più deteriori del passato, come dimostra il raduno neofascista di Acca Larentia. La preoccupano questi fenomeni?

«Ci sono sempre stati ma oggi fanno la voce più forte. Le foto e i video di Acca Larentia mi hanno spaventato: sono tanti, organizzati, addestrati, strutturati come un esercito. All’estero quelle immagini hanno fatto un’impressione enorme e questo ci danneggia molto: era una manifestazione apertamente, coralmente, muscolarmente fascista».

Perché Giorgia Meloni, a oggi, non ha ritenuto di condannare quelle immagini?

«Perché quelli votano per lei e non sono pochi. Resta in silenzio per non andare contro i suoi. Ma il funambolismo tra passato e presente potrà reggere finché la Storia non la porrà di fronte a un dilemma importante: arrivano sempre eventi che non possono essere ignorati e lì Meloni dovrà scegliere se perdere quei voti. Ma non so dirle se lo farà, non vuole nemici a destra».

Andiamo a sinistra. Che cosa manca oggi perché una coalizione di centro-sinistra stia insieme non per necessità ma per un vero progetto alternativo?

«Una ricetta per affrontare insieme le paure per l’economia e l’immigrazione. Manca una leadership riconosciuta che unisca, come in Delors, concretezza e ideologia. È difficile avere un obiettivo non indotto dalla necessità se a dominare sono gli equilibri di coalizione e le scadenze di breve periodo».

Europa e sinistra vanno lente, lei corre ancora?

«Un giorno sì e uno no. Fino all’anno scorso facevo 9 km, ora mi fermo a 8,7-8,8. Tranne negli anni “della carriera”, quelli degli studi a Milano e i primi della carriera universitaria, ho sempre corso. Ho fatto jogging dappertutto: attorno al palazzo imperiale di Tokyo, in Cina, in tutte le città americane ed europee in cui sono stato. Anche ora ho le scarpette in valigia, per domattina, sul Lungotevere: è bellissimo, e all’ora in cui vado io non c’è mai nessuno».

 

]]>
Superpotenze in crisi: l’assenza di dialogo agevola le guerre http://www.romanoprodi.it/articoli/la-crisi-delle-superpotenze-e-lassenza-di-dialogo-che-agevola-le-guerre_20699.html Sat, 27 Jan 2024 09:00:44 +0000 http://www.romanoprodi.it/?p=20699

Superpotenze in crisi – L’assenza di dialogo che agevola le guerre

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 27 gennaio 2024

Il conflitto che ha avuto inizio con la sanguinosa azione di Hamas e che prosegue con la distruzione di Gaza, sta producendo conseguenze tragiche non solo in tutto il Medio Oriente, ma in un orizzonte mondiale.

La tensione israeliano-palestinese ha ulteriormente peggiorato la vita in Cisgiordania, indurendo i già drammatici rapporti fra i coloni israeliani e la popolazione arabo-palestinese. Ha inoltre moltiplicato le incursioni degli Hezbollah nel vicino Libano e, soprattutto, ha messo in crisi il disegno americano di regolare il futuro del Medio Oriente attraverso un progressivo avvicinamento dei Paesi del Golfo e di Arabia Saudita con Israele.

Già oggi, in tutto il Medio Oriente, le posizioni radicali assumono infatti un rilievo sempre maggiore, non solo cancellando i disegni dei nuovi equilibri che si cercava di costruire, ma aumentando ulteriormente le precedenti posizioni anti occidentali.

L’onda dei conflitti e delle tensioni si è estesa poi dal Medio Oriente a tutto il mondo quando gli Houthi, intervenendo nel Mar Rosso, hanno paralizzato l’intero commercio fra Est e Ovest, costringendo un numero sempre crescente di navi a circumnavigare l’Africa, con tempi e tariffe di trasporto moltiplicate.

Tutto questo sta già danneggiando le nostre attività economiche e sta incidendo pesantemente sul costo della vita.

Questa violazione del grande principio della libertà del commercio nel mare e i gravissimi danni economici che ne conseguono sono frutto dell’azione degli Houthi, noti per la loro capacità di combattere, ma non certo forniti di un potenziale militare di grande rilevanza.

Eppure si tratta di una violenza molto difficile da arginare proprio perché gli Houthi colpiscono le navi, oltre che con qualche missile, soprattutto con droni e armi poco costose ed elementari.

Tuttavia, avendo le loro basi nello Yemen, non possono essere messi interamente fuori gioco se non con un intervento di truppe di terra: operazione del tutto irrealistica e politicamente inconcepibile.

Necessaria appare invece la protezione navale che, partita da Stati Uniti e Gran Bretagna, vede oggi un probabile coinvolgimento di unità navali dell’Unione europea, Italia compresa. Un intervento che, proprio perché in difesa della libertà di navigazione (e quindi opportunamente denominato Aspide, cioè scudo), appare necessario, anche se potrà essere solo parzialmente efficace per fare riprendere il traffico marittimo.

Il transito delle navi ha infatti bisogno di una sicurezza totale che difficilmente può essere messa in atto quando le basi, dalle quali partono le offensive degli Houthi, sono mobili e difficilmente eliminabili senza l’impossibile azione terrestre.

E’ indubbiamente degno di riflessione il fatto che queste operazioni militari siano tutte originate da organizzazioni non statuali (Hamas, Hezbollah e Houthi), anche se evidentemente appoggiate da strutture statuali che trovano un comune punto di riferimento nell’Iran. Questo paese sta infatti estendendo la propria influenza non attraverso interventi diretti, ma fornendo a questi soggetti (non regolati da alcun vincolo territoriale o giuridico) i mezzi necessari per provocare danni e terrore.

Tutto questo è possibile a causa della mancanza di un’autorità mondiale e della sostanziale inesistenza di un necessario dialogo fra le grandi potenze. E’ la situazione nella quale ci troviamo in questo anno di incertezza politica americana e di crescenti tensioni fra Stati Uniti, Cina e Russia.

Stiamo vivendo un tempo in cui sembrano essere impossibili le mediazioni necessarie per la prevenzione e la soluzione dei conflitti.

Non può essere inoltre sottovalutato che tutti questi soggetti che sconvolgono gli ordinamenti internazionali sono sostanzialmente unificati da un comune atteggiamento anti occidentale e anti democratico. Il conflitto arabo-israeliano ha infatti accentuato enormemente la polarizzazione fra noi e il resto del mondo (West contro Rest). Uno scontro che dobbiamo evitare se vogliamo sperare in una tollerabile evoluzione  della convivenza mondiale e nella sopravvivenza della democrazia.

Non resta quindi che moltiplicare ogni sforzo per porre fine al conflitto arabo – israeliano che da 75 anni sta destabilizzando il Medio Oriente, e non solo il Medio Oriente.

Ovviamente la soluzione non è alle porte perché esige da un lato un’autorità palestinese credibile e capace di dettare regole ad Hamas e, dall’altro, la fine di un governo israeliano che, per bocca di Netanyahu, ha dichiarato che vi sarà sicurezza in Israele solo quando avrà il pieno controllo dell’intera Palestina.

Siamo quindi ben lontani da un credibile processo di pace a cui ci possiamo avvicinare solo con un’azione imposta dal necessario accordo fra gli Stati Uniti e i paesi del Golfo.

Non sarà però facile per gli Stati Uniti convincere un qualsiasi futuro governo israeliano a porre un limite all’avvenuta colonizzazione della Palestina, come peraltro previsto da tutti i precedenti accordi internazionali.

Così come non sarà facile dare finalmente vita a un governo palestinese efficace e responsabile.

Teniamo però in conto che, senza questa grande visione, avremo ancora decenni di tragedie, con la simmetrica autodistruzione del popolo ebraico e palestinese.

 

 

]]>