Solo una forte Europa può garantire la pace

La guerra di oggi sia un monito: solo una forte Europa sarà garanzia di pace

Intervista di Mariantonietta Colimberti e Raffaella Cascioli su AREL – Agenzia di Ricerche e Legislazione – del 28 giugno 2022

Guerra, leadership europea, rapporti USA-Cina-UE, i nemici del Vecchio Continente, il potere non statuale delle Big Tech. E ancora, i cambiamenti nel commercio internazionale, la trasformazione della globalizzazione con l'”effetto mascherina”, i rapporti di forza tra democrazia e dittatura, il ritorno della politica nel Mediterraneo. A trenta anni dagli accordi di Maastricht Romano Prodi, presidente della Commissione europea tra il 1999 e il 2004, analizza il mondo di oggi alla luce delle parole di ieri e traccia la strada di quella che, a suo avviso, dovrebbe essere l’Europa di domani.

Prof. Prodi, avrebbe mai immaginato quando era presidente della Commissione europea, che dopo due decenni la parola più importante in Europa sarebbe stata “guerra”?

Non solo non lo avrei mai potuto immaginare ai tempi della mia Commissione, in un contesto di cooperazione fattiva tra Europa e Russia, ma non lo ritenevo possibile, nonostante le crescenti tensioni, nemmeno il 23 febbraio, a un giorno dall’inizio della guerra. Nella mia vita politica ho partecipato a infiniti vertici Nato-Russia, Unione europea e Russia e ho avuto rapporti continui con l’Ucraina. Nella conferenza stampa al termine del vertice del 2005 tra Unione europea e Russia, sul partenariato strategico per un rafforzamento della cooperazione tra le due aree, un autorevole giornalista, considerato il clima di distensione nel quale si erano svolti i lavori del vertice, chiese a Putin e a me quando la Russia sarebbe entrata nell’Unione europea. Ovviamente rispondemmo che non sarebbe accaduto mai, ma nessuno gridò allo scandalo, viste le strette collaborazioni che erano in atto. Tanto è vero che in quell’atmosfera di cooperazione condivisa da tutti, dai tedeschi fino all’ultimo paese dell’Unione europea, nel brindisi finale ricordo di aver detto a Putin che noi dovevamo essere un po’ come “whisky and soda”. Putin ribatté correggendo che era meglio parlare di “vodka e caviale“. Ripensandoci forse già allora, nonostante il clima amichevole in cui si realizzava una cooperazione collettiva, Putin esprimeva, con quella battuta, il suo rimpianto per la Russia degli zar. Oggi il riferimento di Putin, infatti, non è l’ex Unione Sovietica, ma la Grande Madre Russia con tutto ciò che questo comporta, a cominciare dallo storico legame con la Chiesa ortodossa. Guardare al passato, per quanto glorioso, e non al presente della Russia, è un grande errore. Basti solo, per comprendere la distorsione storica, una considerazione: nell’ultimo anno degli zar la Russia aveva 176 milioni di abitanti, ossia un decimo dell’umanità, mentre oggi i suoi 146 milioni di abitanti corrispondono a un cinquantesimo della popolazione mondiale.

All’inizio degli anni Duemila Lei fu uno dei pochi a sostenere che il confine a Est dell’Unione europea non sarebbe stato ulteriormente postato e che l’Ucraina doveva rappresentare un ponte, tra due grandi aree, Europa e Russia. Cosa è andato storto?

Non solo io ho proposto questo, ma ho votato nel 2008 al Vertice di Bucarest, come ultimo atto del mio secondo governo, insieme a Germania e Francia, contro la proposta di Bush di far entrare Ucraina e Georgia nella Nato. L’ho fatto per un desiderio di pace perché tante volte avevo mediato i difficili rapporti tra Mosca e Kiev. Ma non solo: di fronte al problema del gas, che dal punto di vista economico era dominante anche allora, proposi in seguito la costituzione di un consorzio, o di una società, composta da un terzo russo, un terzo ucraino e un terzo europeo, che gestisse la proprietà dei gasdotti ucraini. E questo al fine di dare certezze là dove potevano non esserci: la Russia, ad esempio, era sicura che il gas partisse e arrivasse a destinazione senza furti? Oppure l’Ucraina era certa di avere gli introiti adeguati per il passaggio nel gasdotto e l’Europa di ricevere per intero il gas? La formula del consorzio avrebbe messo tutti al riparo, ma la proposta cadde nel vuoto.

Una importante parola di ieri (di cui Lei è stato protagonista) è “allargamento” dell’UE. Nel 2004 dieci Paesi principalmente dell’Est Europa, sono entrati nell’UE. Oggi c’è “adesione” alla Nato, cioè a un’organizzazione militare, sia pure difensiva. Cosa è cambiato?

Nel periodo dell’allargamento, i Paesi Baltici e la Polonia anteponevano l’adesione alla Nato rispetto all’ingresso nell’Unione europea. Più volte mi sono trovato a spiegare loro che con l’adesione alla UE avrebbero avuto la sicurezza che cercavano. Il loro ingresso nell’Unione è stato quindi il frutto di un dialogo costante e di un lungo processo democratico che ha coinvolto i parlamenti di tutti i paesi. E la loro adesione all’Europa è avvenuta in un clima di reciproca fiducia. Oggi, invece, sembrano tornare le tensioni del passato. Quando la paura torna a diffondersi tra i popoli, di fronte alla realtà che cambia in modo improvviso e inaspettato, come è accaduto con l’invasione russa in Ucraina, i governi cambiano le loro politiche. Svezia e Finlandia, solo un anno fa, non avrebbero neanche lontanamente pensato di aderire alla Nato!

Gli accordi internazionali vengono continuamente violati. L’Ucraina nel 1994 aveva rinunciato all’arsenale nucleare per garantire i confini. Poi ci sono stati gli accordi di Minsk. C’era un modo per evitare la guerra?

Continuo a pensare a tutte le occasioni in cui ho fatto costante riferimento alla riuscita esperienza italiana per la risoluzione delle tensioni nelle Province di Trento e Bolzano. L’autonomia altoatesina, frutto di tante mediazioni e continui aggiornamenti, è un esempio di come sia possibile prendersi cura della pace anche in territori che avevano un’alta conflittualità. In questi anni i rapporti tra Russia e Ucraina si sono deteriorati e io non ho più avuto le responsabilità politiche per occuparmene. Tuttavia non avrei mai pensato che le tensioni sarebbero sfociate in una invasione militare da parte della Russia. Sicuramente Putin ci ha messo del suo nel perseguire l’idea della Grande Madre Russia, però penso anche che sia stato mal consigliato.

In che modo?

La prima cosa che ho fatto, all’indomani dell’invasione, è stata quella di chiedere agli esperti militari che tipo di guerra fosse iniziata. Il parere di tutti è stato che per invadere un Paese come l’Ucraina ci volessero dai 400mila ai 500mila soldati, mentre da Mosca ne erano stati mandati appena 140mila. Ho sempre pensato che, oltre alla follia della decisione, ci siano stati anche perversi consiglieri che hanno nascosto l’impreparazione e il numero delle forze necessarie per affrontare la guerra.

Ci sono margini per raggiungere una pace nell’area?

Credo sia assolutamente prioritario intraprendere ogni sforzo per la pace. Tuttavia, pensando a un dopoguerra che ancora non si vede, sono certo che per la ricostruzione si troverà un accordo, mentre l’odio tra questi due popoli sopravviverà per un tempo infinito.

Il grande sogno europeo dei padri fondatori era quello di costruire una grande area di pace e prosperità; eppure siamo già alla seconda guerra nel cuore dell’Europa. Quel sogno è fallito?

Nessuna guerra, neppure questa, si è svolta nel cuore dell’Europa. All’interno dei nostri confini non c’è mai stato nessun conflitto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Lo dico con orgoglio. Le guerre si sono combattute tutte fuori dai confini europei. Questa è l’Europa. E mentre noi tutti viviamo il dramma umano della guerra in Ucraina, capiamo meglio cosa rappresenti la nostra Unione. L’Europa, in difesa dell’Ucraina, si è unita, ma questa guerra deve essere per noi un monito, un richiamo proprio allo spirito dei padri fondatori: dobbiamo con determinazione rilanciare il processo di unificazione politica europea. O lo facciamo adesso, o non lo faremo mai più. Una forte unione Europa è infatti garanzia di pace. Inoltre questa guerra ha prodotto alcuni fatti nuovi che non ci aspettavamo.

Quali?

A cominciare dal riarmo tedesco le cui conseguenze non sono state abbastanza considerate. Intendiamoci, non ho nessun dubbio sulla solidità della democrazia tedesca, ma non posso ignorare che a fianco dell’industria bellica, che crescerà notevolmente, si costituirà ovviamente un forte establishment con un naturale legame fra l’industria nazionale, burocrazia, forze armate e governo. In questi casi nasce il rischio che nuovi blocchi politici ed economici sorgano a danno del processo di unificazione europea. Processo di unificazione che mai potrà riprendere con il necessario slancio finché perdurerà il vincolo dell’unanimità. Inutile che gli “ultraeuropeisti”, tra i quali anche io mi iscrivo, pensino di metter mano ai trattati per abolire l’unanimità, perché la riforma dei trattati si può ottenere unicamente con un voto all’unanimità! Bisogna uscire da questo circolo vizioso e per farlo io credo si debba perseguire un altro disegno, lo stesso che abbiamo seguito per l’Euro che, pur non essendo stato adottato da tutti i paesi europei, funziona benissimo. Per raggiungere in fretta l’unità nella politica estera e della difesa, l’unica strada da percorrere è la cooperazione rafforzata. E a proporla deve essere la Francia, la sola nazione europea, dopo la Brexit, a sedere nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite e a possedere l’arma nucleare.

La Francia, in questo momento, ha la facoltà di essere un nucleo catalizzatore della politica europea?

La Francia può avere questa facoltà. Macron è all’ultima nomina e, quindi, non ha problemi di gestione dell’opinione pubblica. Nei discorsi e nella teoria è come se Macron preparasse questo gesto perché nelle battaglie sull’Europa è sempre in prima linea. Ha però di fronte la Francia che, come ogni ex impero (basti pensare alla Gran Bretagna e alla Brexit), guida guardando lo specchietto retrovisore, ossia contemplando il passato e non costruendo il futuro.
Purtroppo non possiamo dimenticare che nei momenti decisivi la Francia ha impedito il cammino verso l’unificazione europea: nel 1954 governo e parlamento francesi fecero fallire la Comunità europea di difesa (CED) e nel 2005 i cittadini francesi bocciarono la Costituzione europea. Eppure, secondo me, oggi la Francia avrebbe tutta la convenienza politica nell’esercitare il suo ruolo di motore della politica estera comune. Potrebbe, ad esempio, essere francese l’ambasciatore europeo all’ONU. Il problema è se la Francia avrà il coraggio di guardare al futuro e non al passato.

Quindi il modello sarebbe quello di affidare alla Francia la leadership europea senza bisogno di riformare i trattati, tanto non ci si riesce. Ma come?

È semplicissimo: basta che Francia, Spagna, Italia e Germania propongano una cooperazione rafforzata. Il giorno dopo ci staranno altri dieci paesi. Il treno della storia, come ho sempre sostenuto ai tempi dell’allargamento, passa una volta sola. E se allora non avessimo realizzato l’allargamento ad Est, oggi forse avremmo la Polonia nelle stesse condizioni dell’Ucraina, con un conseguente livello di tensioni ancora maggiore. Quando si perdono gli appuntamenti con la Storia, la Storia punisce. Sono convinto che in una cooperazione rafforzata, al primo gruppo di paesi, subito si aggiungerebbero anche il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo. Con Malta e Cipro si arriva al numero minimo, che è nove. E poi si aggregherebbero subito altri paesi. Però è necessario che la Francia rompa lo schema che ha impedito questo fino ad ora e lo deve fare, evidentemente, con la Germania, l’Italia e la Spagna. Potremmo così dare avvio ad una prima fase di politica estera e di difesa comune.

I tempi di tutto questo?

Ieri.

Trent’anni da Maastricht: le parole di allora, i cosiddetti pilastri, quanto hanno valore oggi?

Tantissime parole hanno ancora valore, perché gli obiettivi di Maastricht sono ancora attuali. Su alcuni strumenti non ho cambiato idea: feci un’intervista quando ero presidente della Commissione europea dicendo che la regola del 3% (il rapporto deficit-Pil non superiore al 3%, ndr) era stupida e non posso cambiare parere oggi che quella regola appare ancora più inadatta. Sono sempre stato convinto che i bilanci vadano ristretti quando è ora di restringerli e vadano allargati al momento giusto. Per questo la regola del 3% per me era e resta sbagliata, perché contrasta con quanto ho imparato nella mia vita, ovvero che il ciclo economico regola anche il bilancio dello Stato. Fu un errore, giustificato dalla preoccupazione e dalla sfiducia riguardo al comportamento di alcuni paesi, tra i quali anche l’Italia, compiuto per tranquillizzare i paesi cosiddetti “rigoristi”, o “falchi”.

I falchi ci sono però ancora adesso e stanno spingendo per un cambiamento nella politica di acquisto di titoli di Stato della BCE e per un rialzo dei tassi…

Dobbiamo vedere a che livello si fissa l’inflazione. Io non sono un lassista e se il rigore serve, sono assolutamente rigorista: se l’inflazione è troppo alta va freddata, se invece cala da sola rapidamente, perché è un’inflazione da costi e non da domanda, allora si può aspettare. Eppure, io non sono tranquillo sull’attuale inflazione e ho avuto ragione fin dall’inizio perché il costo della vita è cresciuto più di quello che tutti dicevano sarebbe aumentato. Gli incrementi iniziali dei prezzi hanno favorito di fatto un clima in cui tutti si sono approfittati.

Ci sono rischi di stagflazione e carestia? Le due cose vanno insieme?

Se con la parola “rischio” si intende “possibilità”, allora sono convinto che ci siano. Per entrambe. Sulle probabilità dico di no, nel senso che abbiamo un’economia che non è ancora precipitata nella crisi, c’è ancora crescita. Semmai, il problema di oggi è che ci sono comportamenti ancora molto divergenti tra i diversi blocchi economici e quindi diventa complicato seguire una politica armonizzata. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno ancora un cammino di crescita piuttosto forte, sono lontani dalla guerra e dalle sanzioni. La situazione della Cina, tra Covid e guerra, produce correzioni politiche ogni giorno, sia nei confronti della componente monetaria, che dell’edilizia e delle opere pubbliche. Mentre l’Europa ancora non sa se resterà o meno senza energia. Sono interessato a cercare di evitare che avvenga il peggio. La stagflazione rimane un’ipotesi, ma ci sono gli strumenti di politica economica per evitarla.

A proposito di Stati Uniti, Lei da quando è scoppiata la guerra ha detto più volte, in recenti interviste, che gli interessi degli Stati Uniti sono diversi da quelli dell’Europa e che gli Stati Uniti come nemico hanno la Cina. Chi è il nemico per l’Europa?

Il nemico dell’Europa è l’Europa stessa, la sua mancata unità politica il suo vero problema: i paesi che danneggiano l’Europa sono tutti più deboli dell’Unione. L’Europa non deve diventare una superpotenza, non è nel suo DNA, ma deve poter difendere gli interessi regionali, che sono i suoi interessi vitali. Noi siamo una potenza economica, eppure nel Mediterraneo, ad esempio in Libia, dominano la Turchia, che ha l’80% del prodotto nazionale lordo spagnolo, e la Russia, il cui PIL pro capite è inferiore a quello italiano. Le nostre debolezze economiche sono tutte nei settori nuovi, la cui nascita esige non solo ricerca scientifica, ma anche un grande mercato. Il cambiamento del mondo oggi non investe solo il potere degli Stati, ma consiste nell’arrivo di un potere non statuale che non ha confronti nella storia dell’umanità, cioè le Big tech. Sono nomi in cui ci imbattiamo ogni giorno: sono Google, Apple, Alibaba, Ebay, Amazon e così via. Tra le prime venti che operano a livello mondiale, una sola è europea, per la precisione tedesca, e due anni fa era la diciannovesima. È un po’ quello che è avvenuto nella storia del farmaco: l’ingegno è europeo, ma il farmaco è americano. Basti pensare ai vaccini anti-Covid: il governo americano – che pure era diretto da un uomo scettico nei confronti dei vaccini – ha annusato l’affare e ha investito subito una valanga di dollari. È finita che il vaccino è americano. La storia si ripete: le idee che provengono dall’Europa, dove sopravvive per esempio la tradizione dell’Istituto Pasteur, oggi sono realizzate da altri. Potrei citare altri esempi, ma il problema è sempre lo stesso. La nostra mancata unità politica, che impedisce sinergie preziose in tanti campi, è il nostro vero problema.

Come può l’Europa sconfiggere un nemico così potente come le sue divisioni interne?

Possiamo fare progressi, ma quello che serve ora è un grande salto. Ripeto, la guerra in Ucraina, deve essere un monito. Il pericolo che vedo è che la paura faccia sì che ogni paese finisca per decidere per sé.
Trovo abbastanza logico e comprensibile che Svezia e Finlandia cerchino l’adesione al Patto atlantico, però questo vuol dire cambiare direzione, non si tratta di una scelta politicamente ininfluente: per noi la Nato resta indispensabile, ma oggi l’Europa ha l’occasione di cambiare i rapporti all’interno del Patto. Faccio un esempio: tutti si sono scandalizzati perché non solo gli americani si sono ritirati dall’Afghanistan senza trattare, ma perché non hanno nemmeno avvisato gli alleati. Mi chiedo: una volta presa la decisione, avrebbero dovuto avvisare trenta paesi diversi e magari trattare con ciascuno di questi? Hanno deciso e basta. Se ci fosse stato un esercito europeo, frutto di una comune politica estera, allora si sarebbe potuto intavolare un dialogo vero tra le due sponde dell’Atlantico, tra USA e UE.

Si può essere autosufficienti nella globalizzazione? I russi hanno problemi diricambi per navi e aerei a fronte del mancato invio della componentistica europea e statunitense e, per questo, si stanno rivolgendo alla Cina, ottenendo però solo una parziale risposta. Quanto l’autosufficienza di aree in questo momento è possibile?

Da quattro/cinque anni stiamo assistendo a un cambiamento: la globalizzazione rimane, ma si attenua molto e si va verso una sorta di contratto di assicurazione per cui ognuna delle tre grandi aree – Europa, Stati Uniti e Cina – cerca una presenza in ogni filiera produttiva importante. C’è una correzione della globalizzazione, non certo la sua fine: nel pieno della tensione fra Stati Uniti e Cina, i porti americani non erano in grado di ricevere tutta la merce che arrivava dalla Cina! E questo perché, fortunatamente, il commercio fra Cina, Stati Uniti ed Europa è così forte da scongiurare la rottura delle relazioni commerciali che sarebbe un danno irreparabile per tutti. Quindi, mentre in alcuni settori dual, ovvero sensibili al doppio uso sia civile che militare, la separazione c’è e si avverte (vedi Huawei e 5G), per tutto il resto si continua a commerciare e, spero, si continuerà a lungo. Detto questo, però, ormai si è compreso che nelle filiere più importanti un minimo di presenza è essenziale per evitare l'”effetto mascherina”.

Che cos’è l’effetto mascherina?

La produzione delle mascherine è semplicissima, eppure in piena pandemia non siamo stati in grado di produrne in quantità e col il ritmo necessari, semplicemente perché in Europa le mascherine, prima del Covid, erano un dispositivo ad uso esclusivamente dei medici e degli infermieri. A differenza dei paesi asiatici, Cina compresa, dove invece la mascherina serve quotidianamente come filtro anti smog. La mancata produzione di mascherine in Europa ha fatto comprendere che alcuni beni essenziali, per esempio in caso di crisi sanitaria, è bene produrli vicino a casa e averli disponibili il più velocemente possibile. Qui si aprirebbe un lungo discorso: gli americani stanno decidendo grandi investimenti in Europa, ma l’Italia ne è totalmente fuori. Tuttavia, se vogliamo invece parlare di alta tecnologia, le aree come Torino o Ivrea sono certamente più convenienti di Berlino sia perché il livello tecnologico è lo stesso, sia perché la manodopera costa meno della metà. Eppure la Tesla o la Intel vanno in Germania.

Le nostre leggi cambiano, quelle tedesche no; quello che vale oggi in Italia potrebbe non valere in futuro…

Purtroppo all’estero siamo screditati. Per questo occorre cambiare la burocrazia, scrivere leggi più semplici. Al Presidente Draghi, subito dopo l’insediamento, avevo consigliato di nominare un ambasciatore per le multinazionali con una squadra di trenta-quaranta giovani in grado di mettere a punto una strategia industriale globale. Una personalità con esperienza, un manager conosciuto in grado quindi di rendere attrattivo il nostro Paese e di proporlo alle grandi imprese, come Google, Apple, Alibaba, Amazon, Ebay.

Che rischi ci sono di essere governati nei prossimi anni dalle policy di queste grandi aziende?

Elevatissimi. E l’Europa ha necessità di sopravvivenza perché, come si è detto, la quasi totalità di queste multinazionali è americana o cinese. È questa la grandezza della sfida che abbiamo di fronte! I bilanci di queste imprese sono maggiori della maggior parte di quelli dei principali paesi. Seppure con metodi per me inaccettabili, il cinese Xi ha deciso di mettere loro un freno, noi no. Quando Ali Baba, l’azienda fondata da Jack Ma, ha esagerato, Pechino ha sanzionato il gigante dell’e-commerce cinese con una maxi-multa da 18,2 miliardi di yuan (pari a 2,78 miliardi di dollari) per abuso di posizione dominante. Ma le autorità cinesi non si sono limitate a questo: hanno tagliato l’ala finanziaria, Alipay. E questo apre il discorso sulla necessità di rendere la democrazia efficiente.

Parliamone.

In Cina sono state introdotte dalle autorità nuove misure restrittive sui giochi online per frenare una dipendenza che interessa soprattutto i giovani sotto i 18 anni. È stato inoltre fissato un limite temporale sull’uso della Rete da parte degli adolescenti. Non è quello che anche i nostri genitori vorrebbero? Se la dittatura prende misure che i sistemi democratici non riescono ad assumere, è chiaro che a lungo andare la democrazia si indebolisce agli occhi dei cittadini che non vedono cambiare le cose che vorrebbero diverse. La democrazia quindi potrebbe uscire indebolita da questo confronto.

E quindi cosa dovrebbe fare l’Europa?

E quindi bisogna che ci sia una democrazia operante. A volta mi capita di ricordare ai colleghi americani, con cui ho studiato tanti anni fa, le regole antitrust, ovvero che un tempo non era punito solo l’abuso da parte delle società, ma anche la loro dimensione. Oggi ci si è dimenticati di questo: quale sarà infatti il parlamentare americano che limita la dimensione di Google o di Apple, quando tutti utilizzano in modo gratuito gli smartphone per accedere alla Rete? Un tempo i grandi proprietari, i Rockefeller e gli altri, erano “antipatici” perché alzavano i prezzi, perché restringevano il mercato, mentre i monopolisti di oggi sono “simpatici”, prendono i soldi da chi fa pubblicità, dai dati, ma non direttamente dal consumatore che vota.

Parliamo di gas e petrolio. L’Europa rischia di affrancarsi da Putin per legarsi ai regimi autoritari del Nord Africa per quel che riguarda le forniture: stiamo cadendo dalla padella nella brace?

Per affrancarsi dalla Russia ci vogliono anni e questo è noto a tutti. A volte sospetto che alcuni paesi europei si nascondano dietro alle resistenze ungheresi, sapendo bene di non poter rinunciare al gas russo, pur senza dichiararlo. E di questo i russi sono perfettamente consapevoli. Sosteniamo che non si deve comprare gas da Mosca per non finanziare la guerra di Putin e stiamo versando il doppio alla Russia, pur comprando meno gas, perché il prezzo è aumentato. In questo campo non vi è solo un’asimmetria tra i paesi europei, ma anche l’asimmetria degli interessi tra Stati Uniti ed Europa e io credo sia necessario un processo di compensazione fra paesi europei, in primo luogo, e fra Europa e Stati Uniti in seconda battuta. Bisogna tener conto del fatto che la diversità di interessi esige in modo preventivo l’individuazione di logiche compensative, affinché non si formino opinioni pubbliche ostili. In questo momento, la Spagna paga il gas infinitamente meno dell’Italia e ha un potenziale enorme di rigassificazione, grazie ai suoi impianti sulle coste, ma non può sopperire al bisogno di energia dell’Europa perché la sua rete di gasdotti è solo minimamente interconnessa con la Francia. E fu proprio la Francia a non volere l’allaccio al gas spagnolo, interessata com’era a vendere il surplus di energia, prodotta dalle sue centrali nucleari, ai vari paesi confinanti. Queste possono diventare situazioni che sfaldano l’Europa. Occorre cambiare e bisogna fare presto.

Ci dia una parola di speranza.

Certo ma, come ho precedentemente affermato, non si tratta di sperare che accada l’impossibile. Sul tavolo ci sono decisioni da prendere, in grado di cambiare il quadro totalmente, e sono decisioni possibili. Se poi non vogliamo decidere, allora è un altro discorso.

La guerra finirà?

La guerra finirà quando America e Cina decideranno che finisca. Poi la mediazione la farà qualcun altro, però con le istruzioni americane e cinesi.

Una pace in Europa senza l’Unione europea sarebbe una sconfitta o no?

Le cose bisogna dirle chiare. Zelensky parla solo degli Stati Uniti e Mosca guarda alla Cina. Abbiamo bisogno di un’Europa finalmente unita sul piano politico, capace di esercitare quel ruolo di arbitro che le spetta tra le due super potenze. E bisogna far presto perché intanto l’autoritarismo ha già fatto grandi passi in avanti coinvolgendo Filippine, Turchia, Russia, tutta l’Asia Centrale, metà Africa, Brasile e così via. Non è un caso che nella votazione ONU sull’Ucraina, sebbene la stragrande maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite – 141 su 192 – abbia votato a favore della mozione occidentale di condanna dell’invasione russa, quasi i due terzi degli abitanti del globo, a partire da Cina e India, abbiano manifestato il loro dissenso nei confronti delle democrazie liberali con l’astensione o il voto contrari. C’è il rischio che si stia costruendo una drammatica frattura fra paesi di democrazia e ricchezza consolidate e tutto il resto del mondo. Dobbiamo evitare che in futuro prevalga il motto: “Paesi proletari di tutto il mondo, unitevi!”.

Come riappropriarsi di un mare che non è più nostro?

Sarebbe un lungo discorso. Mi accontento di tentare di perseguire l’unico obiettivo politico che mi è rimasto: la creazione di un sistema universitario innovativo ed egalitario tra Nord e Sud del Mediterraneo. Venti/trenta Università che non siano nostre filiali in Africa, ma con sedi condivise tra Atene e il Cairo, tra Palermo e Tunisi, tra Barcellona e Rabat e così via. Università miste con tanti professori e studenti del Nord e altrettanti del Sud e con l’obbligo di studiare tanti anni al Nord, quanti anni al Sud. Ci costerebbe molto meno del pattugliamento delle coste, e cambierebbe il volto del Mediterraneo. Quando avremo 500.000 ragazzi che hanno studiato assieme, avremo la possibilità di avere un futuro diverso e migliore. Dobbiamo rientrare nel Mediterraneo dove ormai siamo sempre più assenti e abbiamo lasciato campo libero al radicalismo islamico. E dobbiamo allargare il nostro orizzonte al mondo.

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
giugno 29, 2022
Interviste