Israele, i palestinesi, la missione per Gaza e l’abuso politico
La missione per Gaza e l’abuso politico
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 03 ottobre 2025
Quando le trattative hanno un esito così incerto, è estremamente difficile scrivere della tragedia di Gaza. È tuttavia un compito con cui è doveroso misurarsi, anche se domani le cose potranno prendere direzioni oggi imprevedibili.
In ogni caso le venti condizioni dettate da Trump non solo sono estremamente dure, ma contengono tali margini di incertezza sul futuro di Gaza e dei suoi abitanti, da rendere ancora più difficile una definitiva presa di posizione.
La drammatica incertezza viene aumentata dalle successive dichiarazioni di Netanyahu che, sotto la spinta dei suoi ministri ancora più oltranzisti, mette un’ulteriore ipoteca alla stabilità e alla durata di un qualsiasi accordo.
Inoltre, in un momento in cui si apre un pur sottile spazio per una tregua, non aiutano certo le sue dichiarazioni secondo le quali, se le proposte non saranno accettate, Israele si riterrà libero “di finire il lavoro”. E tutti sanno di che lavoro si tratta.
L’interrogativo cruciale delle proposte di Trump riguarda il futuro ruolo dell’esercito israeliano per cui non è prevista una data di ritiro. L’esercito rimane di fatto l’unico garante dei futuri equilibri non solo di Gaza, ma dell’intera Palestina.
Il che non è un cambiamento di prospettiva di poco conto per gli oltre 150 paesi che si sono schierati in favore del riconoscimento dello Stato palestinese e, quindi, della sua autonomia.
E’ lasciata a un futuro indeterminato anche la costruzione di uno Stato autonomo, così come non viene posto alcun limite alla progressiva occupazione dei Territori da parte dei coloni armati. Viene inoltre solo ipotizzato un possibile ruolo per l’Autorità Palestinese che, pur piena di problemi e tanto screditata, dovrebbe essere determinante anche nell’amministrazione provvisoria e nella ricostruzione del territorio di Gaza.
Ha inoltre dettato una certa sorpresa, in molte sedi politiche e diplomatiche, la creazione di una specie di comitato di garanzia per la pace, presieduto dallo stesso Donald Trump, difficilmente immaginabile come un arbitro imparziale. Tale comitato comprende come punto di riferimento Tony Blair, il Primo Ministro britannico che ha avuto un ruolo fondamentale nella guerra in Iraq del 2003, contribuendo in modo determinante alla destabilizzazione di tutto il Medio Oriente.
Ancora una volta il popolo palestinese è quindi schiacciato da una doppia tenaglia: da un lato il potere oppressivo di Hamas e, dall’altro, il ferreo e implacabile dominio di Israele.
Le proposte di Trump arrivano in questo quadro così incerto e inquietante ma, con i rapporti di forza oggi esistenti, non possono che essere prese in considerazione come un punto di partenza per arrestare il totale sterminio di Gaza e l’espulsione di quello che rimane dei suoi abitanti.
Perché questo obiettivo possa almeno avvicinarsi, occorre che la comunità internazionale colga quest’opportunità per avviare un dialogo che, anche costretto dalle tragiche circostanze, affronti finalmente i problemi lasciati aperti per troppi decenni.
La partecipazione corale e emotiva di tanta parte del mondo alla tragedia di Gaza deve spingere i governi a cercare un nuovo orizzonte per il suo futuro e per tutta la Palestina, con i necessari accordi e gli indispensabili compromessi con Israele.
A Trump si deve far capire che non esiste solo la forza delle armi, ma che oggi è molto più efficace la forza della diplomazia che né Trump né Netanyahu hanno voluto finora ascoltare.
A riportare in gioco la diplomazia debbono contribuire non solo gli Stati Arabi, che hanno compiuto effettivi sforzi di mediazione, ma anche l’Unione europea che tuttavia, come sta avvenendo in tutti i grandi scenari della politica internazionale, non è in grado di fare sentire la propria voce. Non è un caso che nell’ultimo inutile vertice di Copenhagen, che pure si è svolto dopo le proposte di Trump, i leader europei non abbiano nemmeno toccato il tema dei rapporti fra Israele e Palestina. Non è questa una premessa perché l’Europa finalmente parli. Oggi, però, sono i popoli europei che le chiedono di parlare. E lo hanno chiesto milioni di persone pacificamente e spontaneamente confluite in migliaia di diverse manifestazioni, attraversate e accomunate da un desiderio di pace che non è stato certo cancellato dalla presenza di alcuni irresponsabili violenti.
L’emozione popolare per quanto è avvenuto e sta avvenendo a Gaza deve quindi ricevere una risposta politica capace di far evolvere una proposta, per ora ancora vaga e incompleta, ma che proprio per questo deve essere precisata e completata da un lungo lavoro diplomatico e da una partecipazione popolare in grado di dimostrare che la sola forza non porta la pace. Come ultima osservazione sono convinto che anche la flotta di imbarcazioni che si è avviata verso Gaza, con partecipanti di così tanti paesi, abbia dato un contributo importante a questa corale emozione. Non teniamo perciò conto del fatto che, come è accaduto unicamente in Italia, essa sia stata strumentalizzata da motivazioni di politica interna che nulla hanno a che fare con l’obiettivo che si proponeva. Proprio perché il sentito e nobile obiettivo fosse salvaguardato, penso che sarebbe stato opportuno ascoltare le parole del Presidente della Repubblica e le proposte della Conferenza episcopale italiana. Lo scopo della missione può essere infatti considerato raggiunto e, dai più, compreso nel suo significato.