Ora pure gli inglesi cominciano ad aver paura della Brexit

L’uscita dalla Ue
La Brexit comincia a far paura agli inglesi

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 24 aprile 2016

Non è un periodo facile per l’Unione Europea. I problemi si moltiplicano, le forze centrifughe aumentano e Bruxelles fatica ogni giorno di più a tenere insieme i fili di un’Unione che appare nello stesso tempo più difficile e più necessaria.

A sottolineare la necessità dell’Unione è dovuto intervenire perfino Obama, che è corso a Londra non solo per ribadire il tradizionale legame fra Stati Uniti e Gran Bretagna ma per sostenere in modo inaspettatamente forte e determinato la positività della permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea.

Il presidente americano non ha esitato ad entrare a piedi pari nel dibattito interno britannico con l’arma nucleare, che ha tagliato l’erba sotto coloro che ritengono che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione possa essere sostituita da un legame preferenziale con i  cugini americani. Obama non è andato per il sottile ed è arrivato a dire che, in caso di uscita, la Gran Bretagna non solo non riceverebbe alcun trattamento privilegiato nei rapporti commerciali con gli Stati Uniti ma sarebbe messa in coda rispetto agli altri paesi europei.

Nello stesso tempo si sono gettati in difesa dell’integrità dell’Unione tutti gli altri grandi paesi anglofoni, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dall’India al Canada. In poche parole sono diventati sostenitori della permanenza nell’Unione Europea tutte le nazioni  sulle quali i sostenitori dell’uscita puntavano come una possibile valida alternativa economica e politica in caso di Brexit.

Quello che mi desta più sorpresa (una piacevole sorpresa) è vedere che i più autorevoli commentatori contrari alla Brexit usano argomentazioni che mai avrebbero osato esprimere in passato. Non si limitano infatti a mettere in luce il fatto che le analisi del tesoro britannico ritengono che, in caso di uscita, la perdita di velocità dell’economia britannica sarebbe catastrofica ma si spingono a sostenere argomentazioni in favore dell’Europa che, in passato, nessuno avrebbe potuto nemmeno adombrare.

Con personale soddisfazione mi è infatti capitato di leggere, nell’autorevolissimo Financial Times, che il sistema democratico è più forte in alcuni paesi europei che non in Gran Bretagna, dove la Camera dei Lord non è eletta. Che il sistema elettorale britannico non è il più rispettoso della volontà dei cittadini di alcuni paesi continentali. Che non è dimostrato che la pressione degli immigrati sarebbe meno pericolosa in caso di Brexit. E, perfino, che la burocrazia di Londra non è meno intrusiva di quella di Bruxelles.

Non so quali saranno i risultati di queste sorprendenti prese di posizione, anche se le analisi demoscopiche dimostrerebbero una certa ripresa di coloro che vogliono rimanere nell’Unione e gli scommettitori, che in Gran Bretagna godono la fama di avere un certo fiuto, si stanno orientando più decisamente contro la Brexit.

Penso infatti che la gara sia ancora aperta e che la campagna di denigrazione svolta per anni dalla maggioranza dei media britannici abbia formato uno zoccolo di opinione pubblica difficilmente convertibile ad un atteggiamento filo-europeo, tanto è vero che lo stesso presidente Obama è stato non solo accusato di avere sempre avuto pregiudizi anti-britannici ma perfino di avere alimentato questi pregiudizi per il fatto di essere più Keniano che americano.

Più ci si avvicina al referendum più ci si accorge che l’atteggiamento anti-europeo è stato alimentato da argomentazioni e pregiudizi che devono poi essere faticosamente messi da parte quando si tratta della scelta definitiva: la scelta di decidere fra il sì e il no.

Eppure questi eventi non sembrano insegnare nulla agli altri governanti europei, che continuano a prendere decisioni inseguendo gli umori dei nuovi populismi e continuano a scaricare sull’Europa la causa delle proprie difficoltà e dei propri problemi.

Nello stesso giorno dello show di Obama a Londra i ministri europei delle finanze si sono infatti scontrati sulla decisione di punire le banche che hanno in portafoglio troppi titoli pubblici del proprio paese, assolvendo invece gli istituti che sono pieni fino al collo di derivati dei quali non si conosce la solidità.

E, sempre nello stesso giorno, sono proseguite le discussioni senza fine se concedere o no alla Grecia nuovi crediti per pagare i vecchi debiti che il paese non è in alcun modo in grado di pagare. Alla fine, si arriverà alla decisione di non annullare nessuna parte del debito della Grecia, ma solo di permetterle di dilazionare qualche rimborso in cambio di una politica di austerità che le renderà impossibile pagare i propri debiti anche in futuro.

Forse, come nel caso della Gran Bretagna, al fine di recuperare un minimo di realismo e per capire il senso della storia dobbiamo arrivare fino al punto di mettere sul tavolo la definitiva rottura della solidarietà europea?

Non è meglio fermarci prima di iniziare un braccio di ferro tardivo e dannoso come quello che si sta svolgendo ora nel Regno Unito ( si fa per dire) di Gran Bretagna?

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
aprile 24, 2016
Articoli, Italia