La difficile nascita della democrazia in Medio Oriente

Le piazze da Tunisi al Cairo, dove passa la democrazia

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 16 ottobre 2011

Domenica prossima, con le elezioni in Tunisia, inizierà la prima tappa del  processo di democratizzazione che dovrebbe definitivamente porre fine alla lunga serie di  governi autoritari di molti paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Un processo che dovrà essere seguito con attenzione perché risulta molto più difficile e complesso del previsto.

Senza prendere in esame la Libia, dove il conflitto  non ha ancora avuto termine, la transizione verso la democrazia è ovunque rallentata dalla diversità delle ideologie, dalla molteplicità dei partiti e dalla necessità di trovare un accordo sulle regole democratiche in paesi nei quali non sono sostanzialmente mai esistite.

In Tunisia, pur nell’incertezza che deriva da una incontrollata e quasi folcloristica molteplicità di partiti e da una radicale diversità di ideologie e programmi, il processo democratico sembra avere un suo inizio concreto, anche se non sarà certo facile raggiungere i compromessi  necessari per fare convivere tra di loro le diverse posizioni, che vanno dal fondamentalismo religioso fino a un concetto laico dello Stato di diretta derivazione europea.

Ben più complesso è il caso egiziano, dove il potere si è progressivamente trasferito nelle mani del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) ma viene esercitato ora con  polso eccessivamente fermo, ora con politiche deboli e contradditorie. Questo perché  incerto e contradditorio è l’atteggiamento delle forze armate nei confronti dei Fratelli Mussulmani, a loro volta divisi fra fondamentalisti e riformisti ma sempre più influenzati dai movimenti religiosi più estremi.

In questa situazione di incertezza si moltiplicano gli scioperi selvaggi in tutti i più importanti settori pubblici e privati, si susseguono processi improvvisati, si accumulano le accuse di corruzione anche da parte di coloro che della corruzione passata sono stati artefici o complici. Come sempre avviene in queste circostanze, si è aperta una gara sciagurata fra gli autentici rivoluzionari e coloro che debbono dimostrare di avere cambiato davvero casacca.

Il paese è sempre più insicuro e tragicamente insicura è la vita dei cristiani copti, che  pure sono da sempre vissuti in Egitto e che non solo rappresentano una forte minoranza numerica della popolazione ( tra l’otto e il dieci per cento) ma ne sono un pilastro fondamentale della struttura economica e professionale. I cristiani, oggetto di crescenti episodi di violenza, si sentono sempre più insicuri e privati dei diritti fondamentali, anche se i militari, dopo le stragi dei  copti, hanno cercato di lenirne le ferite con scuse e giustificazioni.

Non ci si deve sorprendere se in questa situazione l’economia è al collasso. Il turismo è ridotto ad un lumicino, l’industria non si riprende, lo straordinario flusso di investimenti esteri è scomparso e le riserve di valuta pregiata calano ogni giorno.

Si è arrivati al punto che il Ministro del Lavoro ha pubblicamente dichiarato che l’Egitto è ormai in bancarotta.

Come sempre avviene in queste circostanze, si moltiplicano i sospetti e nascono le più diverse interpretazioni sulle azioni del Governo, accusato di fomentare l’insicurezza dei cittadini allo scopo di spingerli verso la richiesta di legge e ordine. Una domanda che è in effetti cresciuta negli ultimi tempi, anche per la consapevolezza che il processo elettorale sarà lunghissimo. Da novembre a marzo si voterà per le due Camere, mentre l’elezione del Presidente della Repubblica avrà luogo solo nella seconda parte del prossimo anno. Il tutto con una legge elettorale non ancora definita ma che si vorrebbe costruita in modo che i Fratelli Mussulmani non divengano dominanti nel futuro quadro politico dell’Egitto, anche se essi sono oggi l’unico partito organizzato e diffuso in tutto il paese.

Di questo quadro di incertezza prende saggiamente profitto Israele per alleggerire l’isolamento in cui si è trovato dopo la fine di Mubarak e la crescente ostilità turca. Il primo ministro Netanyahu, sorprendendo tutti e vincendo l’ostilità di molti suoi alleati politici, ha infatti accettato lo scambio fra il suo soldato Gilad Shalit, da molti anni in mano ad Hamas, e più di mille prigionieri palestinesi, dichiarando che la liberazione di oltre la metà di questi è dovuta ad un gesto di distensione nei confronti dell’Egitto.

Allo stesso modo costituisce un atteggiamento conciliante da parte israeliana l’avere manifestato le proprie scuse per i morti egiziani negli scontri nel Sinai.  Anche se la politica estera egiziana non potrà mai essere favorevole ad Israele come lo è stata ai tempi di Mubarak, questi episodi dimostrano come la situazione  politica in Medio Oriente sia ancora in movimento e come ne siano incerte le evoluzioni future. Per questo motivo avremmo ancora più bisogno che il passaggio verso la  democrazia fosse in Egitto rapido e lineare, anche se è ben difficile che queste nostre speranze siano esaudite.

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
ottobre 16, 2011
Italia