Guerra a pezzi: se l’Europa viene esclusa dai giochi mondiali
Se l’Europa viene esclusa dai giochi mondiali
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 20 giugno 2025
La guerra mondiale a pezzi dilaga senza che si presenti vicina la composizione di conflitti che quotidianamente esplodono. Lo scontro fra Israele e Iran è solo l’ultimo episodio di una serie di eventi dei quali non si vede l’esito.
Sul campo la superiorità di Israele sembra fuori discussione, anche se è difficile pensare ad una vittoria completa, dato che l’obiettivo è di eliminare in modo definitivo l’ostilità di un paese non solo grande per estensione e per popolazione, ma fornito di una lunga tradizione storica e di una forte identità.
Certamente il possesso dell’arma nucleare renderebbe l’Iran ancora più pericoloso, anche se il paese ora è debole in conseguenza del suo isolamento e della frantumazione della catena sciita che, passando dalla Siria, raggiungeva il Libano, minacciando da vicino Israele.
La superiorità sul campo non comporterà quindi una vittoria definitiva se Israele non riuscirà a imporre il cambiamento di regime. Un obiettivo che Trump ritiene si debba raggiungere addirittura con l’eliminazione fisica dello stesso leader supremo Khamenei.
A fianco di Netanyahu vi è sempre l’imprevedibile appoggio di Trump che, tuttavia, si lascia di fatto guidare dal leader israeliano e, compiendo un ulteriore passo in avanti rispetto allo stesso suo predecessore, lo asseconda e lo appoggia in ogni sua decisione e gli invia tutti gli armamenti necessari per continuare il bombardamento di Teheran.
Tuttavia, nella sua imprevedibilità, da un lato non gli fornisce i famosi missili capaci di distruggere i laboratori sotterranei dedicati alla preparazione dell’arma nucleare e, dall’altro, si dice pronto a dichiarare guerra all’Iran se non firma immediatamente il trattato di non proliferazione.
Di fatto Trump non invierà nemmeno un soldato in Iran e sarà estremamente prudente anche nel forzarne l’immediato cambiamento di regime. Lo impediscono le esperienze di quanto è avvenuto in Iraq, in Afghanistan e in Libia, a cui si aggiunge il suo proposito, ripetuto nella campagna elettorale e nel discorso inaugurale, di porre subito termine alle guerre che altri avevano cominciato e, soprattutto, di non cominciarne altre.
Con tutte le incertezze che sono doverose nei confronti delle dichiarazioni di Trump, è certo che, almeno in questa fase, il Presidente americano continuerà a mantenersi al servizio di Netanyahu, ma non interverrà direttamente nel conflitto contro l’Iran.
Lo scontro fra Israele e Iran non solo è servito a mettere in secondo piano la tragedia di Gaza, che ogni giorno dimostra aspetti di un’incomprensibile crudeltà, ma ha messo in ombra la strategia politica che Trump sta portando avanti nei confronti dell’Ucraina. Il presidente americano ha infatti ipotizzato, anche se in termini generici e non ripetuti, un ruolo di mediatore internazionale per Putin e ha, nello stesso tempo, abbandonato il summit dei G7 senza incontrare il presidente ucraino Zelensky.
Con questi comportamenti ha finito con l’inviare un duplice messaggio. In primo luogo ha mandato a dire agli europei che, riguardo ad una possibile difesa dell’Ucraina, dovranno provvedere loro.
Questo, data la realtà delle forze in campo, non è certo un messaggio incoraggiante per l’Ucraina, soprattutto se si accompagna al ruolo di mediatore internazionale attribuito a Putin che, al di là della concretezza di questa proposta, viene comunque considerato il vero interlocutore del Presidente americano. Con questo disegno Trump pensa di risolvere direttamente, ed in tempi riavvicinati, la guerra di Ucraina.
Ai leader europei viene riservato un atteggiamento di sufficienza, se non addirittura di disprezzo, come dimostrato nei confronti di Macron. D’altra parte, porre fine alla guerra di Ucraina è una necessità primaria per Trump.
Non solo perché durante tutta la campagna elettorale aveva continuamente ripetuto che avrebbe posto termine alla guerra con una rapidità fulminea, ma anche perché oggi, date le crescenti difficoltà interne, ne ha assoluta necessità. Non ci si deve perciò sorprendere che Trump intenda perseguire quest’obiettivo senza tenere conto di qualsiasi principio etico o giuridico o di ogni precedente legame di amicizia e di collaborazione.
Si tratta di un cambiamento radicale della tradizionale politica americana. Essa non si fonda più sulla grande alleanza fra le democrazie, ma su un rapporto diretto e senza intermediazione fra le grandi potenze. In questo quadro, ovviamente, l’Europa non viene nemmeno presa in considerazione.
Questi ultimi passaggi sono forse l’unico segno di coerenza e di prevedibilità di Trump che, tanto nella politica interna quanto nella politica internazionale, non ha più come riferimento il primato del diritto ma quello della forza. Per questo motivo gli riesce più facile trattare con la Russia e con la Cina che con l’Unione Europea. Questo nuovo quadro mi spinge ad un’amara riflessione.
Per tanti decenni il mondo ha vissuto sotto la speranza, o l’incubo, della rivoluzione proletaria. Il futuro del pianeta, come sta cercando di plasmarlo Trump, avrà invece come motto: “autocrati di tutto il mondo unitevi“. Non mi sembra una bella prospettiva.