Trump ha vinto sfruttando la paura. Sanders sarebbe stato più competitivo

Prodi: Trump ha vinto sfruttando la paura ma aspettiamo a giudicarlo dai fatti
Forse Sanders sarebbe stato più competititvo rispetto alla Clinton

Intervista di Titti Marrone a Romano Prodi su Il Mattino del 10 Novembre 2016

Se non è un vero e proprio gemello dei populisti europei – quelli come Orban, Kaczynski, Marine Le Pen, Matteo Salvini – di sicuro Donald Trump assomiglia a tutti loro come una specie di fratello, a questo punto il maggiore e, d’ora in poi, l’indiscusso ispiratore di politiche nazionaliste. È questo il rilievo principale che viene in mente a Romano Prodi nel commentare l’inaspettata, imprevista e dirompente vittoria di Donald Trump. Uno che ha sfoderato in campagna elettorale un’agenda populista inquietante, che il professore definisce basata «sugli stessi pilastri sulle due sponde dell’’Atlantico: il ripudio della globalizzazione, la creazione di muri contro l’immigrazione, la critica al libero commercio e l’accusa alla Cina di essere all’origine di tutti i nostri mali».

Professor Prodi, questa vittoria può significare il de profundis della globalizzazione?

«De profundis è un’espressione troppo definitiva, ma questa vittoria inaspettata è certo una lezione che conferma quanto vado dicendo da tempo: avanza un populismo nuovo, non più solo di destra ma globale, alimentato dagli stessi nutrimenti in Usa e in Europa. Ad incrementarlo contribuisce un’involuzione delle nostre società su questioni come la distribuzione del reddito, l’insicurezza di fronte alle immigrazioni non gestite in modo appropriato, i salari e il lavoro precari o inesistenti, il terrorismo, la finanziarizzazione dell’economia, la globalizzazione affrettata. Tutto ciò rende i sistemi democratici più fragili e vulnerabili di fronte a populismi alla Trump».

Allora contro Trump, invece di una candidata come Hillary Clinton, vista come continuità delle politiche che hanno prodotto quei guasti, sarebbe stato meglio Sanders?

«Sanders adombrava una rottura di sistema, non con il populismo ma con un suo programma, e certo sarebbe stato in ciò un competitor più costruttivo. Non saprei però quanto sarebbe stato capace di attrarre il voto del centro degli Stati Uniti: gli esperti giuravano di no, ma poi chi può dirlo? Con il senno di poi sono tutti capaci. Sicuramente il senatore socialista sconfitto da Hillary alle primarie democratiche avrebbe rappresentato un diverso orizzonte, non sarebbe stato percepito come esponente dell’establishment. Ma non so proprio se avrebbe potuto fermare la paura che è alla base del successo di Trump. Di sicuro, anche Sanders ha rappresentato, in queste elezioni, un’opzione inaspettata e una traiettoria molto interessante: vent’anni fa un candidato socialista sarebbe stato più vicino alla prigione che alla candidatura a presidente degli Stati Uniti».

Facciamo un salto indietro ancor più lungo: alle presidenziali del 1960, in un celebre duello televisivo, un giovane e tonico John Fitzgerald Kennedy sfidò un Nixon pallido e poco persuasivo, e apparve il candidato nuovo. Com’è possibile che oggi quella parte sia stata interpretata da uno come Trump?

«Perché il tema centrale è un altro. Non è questione di novità ma di periodi storici imparagonabili. A quei tempi gli Usa e il mondo erano pieni di giovani che premevano per farsi strada, in mezzo a opportunità crescenti. Oggi il mondo è dominato dalla paura. E guardi che le dico, se a candidarsi per i democratici ci fosse stato JFK in persona, forse non ce l’avrebbe fatta nemmeno lui».

La paura è stata molto evocata in questa campagna e Wall Street aveva lanciato l’allarme: la vittoria di Trump avrebbe fatto schizzare in alto “l’indice della paura”. Ma ieri, dopo un’apertura incerta, i listini hanno preso ad accelerare: come lo spiega?

«Già si stanno preparando perché i mercati finanziari sono maestri nell’annusare le politiche che saranno adottate. Ho già visto i distinguo spuntati nei diversi settori: i farmaceutici che si riposizionano sul prezzo dei farmaci, gli energetici che si aspettano più politiche filo-petrolio, poco aperte ai settori ambientalisti. Le interpretazioni si frammentano ma sarà come per la Brexit: le vere conseguenze, anche su questo piano, si vedranno dopo. Del resto, ha sentito il discorso di Trump a commento della vittoria, no? Molto più rassicurante, pacato e, in campo economico, assolutamente keynesiano. Il che suggerisce: attenzione a trarre conclusioni affrettate».

Dunque non si rischia un salto all’indietro di cinquant’anni?

«Se Trump mettesse in atto le politiche minacciate in campagna elettorale – tasse, muri, espulsioni, fine della Nato – certo che si tornerebbe indietro. Ma, dico io, calma e gesso, vediamo prima quali sono le sue mosse. Occorre un po’ di tempo prima di mettere a fuoco previsioni fondate. Per ora possiamo solo ribadire che hanno vinto la paura e l’insicurezza. E un sistema politico democratico dovrebbe essere sempre in grado di fornire risposte in grado di assicurare sicurezza e coraggio, altrimenti si perde».

La prossima sarà Marine Le Pen, poi i nazionalisti tedeschi, austriaci, olandesi? E in Italia, Salvini o Grillo?

«L’ho detto e scritto, Trump è un populista dello stesso stampo degli altri europei, quindi è chiaro che quelli come lui gioiscano facendo a gara a mandargli le felicitazioni. E Marine Le Pen è stata la prima con il suo tweet. Così si preparano anche loro a fare tesoro delle paure sia di destra che di sinistra, raccogliendole tutte come ha fatto il tycoon senza escluderne nessuna».

In Trump ci sono anche somiglianze con Berlusconi?

«Non mi mischio con un aspetto italiano e personalizzato del problema. Sappiamo bene che la stampa negli Stati Uniti ha fatto molte volte il paragone, articolando il discorso. Che posso dire? Leggo ma senza fare commenti».

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
novembre 10, 2016
Interviste