I partiti populisti sono una via di fuga. Resta da vedere se saranno all’altezza

Romano Prodi: «I partiti populisti? Una via di fuga. Resta da vedere se saranno all’altezza»
Un’intervistatrice nata negli Anni Ottanta. Un celebre intervistato nato negli anni Trenta. Dialogo tra due generazioni sulle ansie di oggi e sul futuro

Intervista di Irene Soave a Romano Prodi su Il Corriere della Sera del 18 maggio 2018

Lei ha conosciuto il Dopoguerra e la guerra fredda, gli anni di piombo e Tangentopoli, la rincorsa all’Europa e il mondo post-11 settembre. Eppure oggi si dice “allarmato”. Lo è mai stato quanto ora?

«No».

Lo incontro nell’ufficio della Fondazione per la Collaborazione fra i Popoli davanti alla Chiesa del Barracano, a Bologna. È il pomeriggio in cui Lega e Movimento 5 Stelle hanno annunciato di voler governare insieme. Romano Prodi, classe 1939, di governi ne ha guidati due: tra il 1996 e il 1998 e tra il 2006 e il 2008. La sua seconda presidenza del Consiglio è iniziata l’anno in cui io votavo alle politiche per la prima volta. È stato presidente della Commissione Europea (1999-2004) e per due volte dell’Iri (1982-1989 e 1993-1994); ministro dell’Industria (nel 1978) e docente universitario come altri cinque dei suoi otto fratelli, figli di un ingegnere e di una maestra. Ha ottenuto, nel corso della sua vita, centinaia di onorificenze e medaglie: tutte, tranne la Legion d’Onore, gli sono state rubate da due ladre d’appartamento, inquadrate dalle telecamere di sicurezza, pochi giorni fa. «C’è di peggio», dice, «star male di salute è peggio. Ma quel che più mi ha mortificato è stato scoprire che tutti quelli con cui ne ho parlato avevano già subito un furto in appartamento. Cioè se sei italiano, almeno una volta nella vita, ti rubano in casa. Fa arrabbiare, no?». Nel 2013 la sua candidatura al Quirinale fu prima decisa in una standing ovation dai grandi elettori del Pd e poi affossata da più di un centinaio di franchi tiratori. Lui si era già ritirato dalla vita politica.

Negli ultimi 12 mesi ha presieduto una commissione dell’Elti, l’associazione che riunisce le casse depositi e prestiti e le banche pubbliche europee, per progettare un piano di investimenti in infrastrutture sociali: cioè scuola, sanità, edilizia popolare. Il piano, «che la Commissione Europea ha accolto molto bene, anche se per ora in maniera informale», spiega, prevede di raccogliere 150 miliardi l’anno da investitori privati e pubblici, da aggiungere ai fondi che l’Europa già dispone per queste spese.

Perché è necessario?

«C’è bisogno di invertire la tendenza all’arretramento dello stato sociale. La gente pensa con risentimento alla cosiddetta “Europa dei banchieri”. Questo è l’opposto: rilancia la politica sociale, che nel secolo scorso è stata la bandiera dell’Europa. Abbiamo scelto tre priorità. La sanità: con l’invecchiamento della popolazione e i costi della nuova medicina si sono fatti passi indietro. Poi la scuola e l’edilizia popolare, oggi si dice affordable housing, forse la parola “sociale” non piace più».

Tre temi di sinistra.

«Mah… se la sinistra se ne occupasse le vincerebbe le elezioni, no? (ride). Scherzi a parte: sono esigenze trasversali. E generano anche crescita. Prenda la crescita italiana. È minore che in altri Paesi europei perché l’edilizia, che spesso è pubblica, è ferma, rallentata da ricorsi e impasse. Investire in questo settore è anche uno strumento di crescita».

E forse anche di consenso: un piano così aiuterebbe a rendere l’Unione Europea di nuovo più popolare?

«Bisogna fare il proprio dovere, e cercare di andare incontro ai bisogni della gente. Ma non mi illudo. Il continente è pieno di cartelli con la bandiera a dodici stelle. Dicono “Quest’opera è stata realizzata con fondi Ue”. Eppure l’antieuropeismo prospera anche attorno a questi cartelli».

Lo avrebbe previsto, vent’anni fa?

«No. Ma nemmeno cinque anni fa. Esisteva già la cognizione dell’insufficienza europea, ma si era anche consapevoli della sua indispensabilità. Il punto di rottura è stato la bocciatura della Costituzione europea nel 2004, affossata da Francia e Olanda. Di lì è partito tutto: la critica all’euro, all’allargamento dell’Unione. Ma quando queste cose furono decise erano radicate nelle nostre coscienze e facevano parte delle nostre speranze».

Le elezioni, da noi, le hanno vinte i partiti euroscettici.

«Ma anche in Polonia, in Ungheria. E in Germania, in Olanda, nella stessa Spagna, gli euroscettici si sono irrobustiti. Per questa malattia c’è un solo anticorpo: consegnare, cioè, all’inglese, deliver, fare politica efficace. Andare incontro alla gente, far vedere che si fanno le cose. Detto ciò, la crisi dei sistemi democratici è mondiale. C’è ovunque una tendenza all’autoritarismo, dalle Filippine alla Cina, dalla Turchia alla Russia. Lo stesso Trump si muove in questo solco, pur nei pesi e contrappesi della società americana».

Ma l’Europa unita, nata dopo le guerre mondiali, non ha valori diversi?

«Li aveva. Oggi è più complicata. Il motore franco-tedesco non va in modo armonico. La Francia si è appaltata la politica estera. La Germania, di contrappeso, la politica economica. Whisky e soda non stanno assieme. Kohl e Mitterrand, tra i padri dell’Europa, si erano messi nei panni di tutti gli europei. Oggi Francia e Germania sono nei panni di se stesse, e nemmeno più l’una dell’altra. Ognun per sé».

Chi è stato per lei l’europeista più importante?

«Helmut Kohl, severissimo ma equilibrato. E Jacques Chirac, che pure aveva un profondo nazionalismo. A un vertice, un giornalista ci vide insieme e gli disse: “Ma cosa fate, che tanto fra poche settimane la Francia sarà nell’euro e l’Italia no”. Chirac lo fulminò: “Il-y-a pas d’Europe sans l’Italie” (qui il professore si lascia andare a una cadenza franco-bolognese, ndr), “non c’è Europa senza l’Italia”. Era cioè uno che aveva il senso della storia. Ecco, l’errore è stato non proseguire nella direzione della storia. Le novità degli ultimi 10 anni – l’economia digitale, i colossi come Amazon e Alibaba – sono americane o cinesi. Se fossimo davvero uniti saremmo noi i numeri uno, come lo siamo nella produzione industriale ed export. Oggi l’Europa è un pane mezzo cotto: cattivo, indigesto, ma non si può tornare alla farina e all’acqua. Per farlo diventare buono non si può che finire di cuocerlo».

Al prossimo Festival della Coesione Sociale di Reggio Emilia (dal 24 al 26 maggio), Romano Prodi parlerà di disuguaglianza. In Italia, ad esempio, un quarto della ricchezza è in mano al 10% della popolazione. Prima di incontrarlo, ho letto molte sue interviste in archivio. Nel 1978, appena nominato ministro dell’Industria, diceva che in Italia «c’è una scissione fra chi è dentro e chi è fuori». E nel 1997 che «l’Italia è divisa fra tutelati e non tutelati». Altri due decenni sono passati, e gli racconto che oggi, lavorando da una decina d’anni, ho maturato il diritto a 82 euro mensili di pensione. Ridiamo amaramente. «Era giusto dire queste cose nel 1978», mi risponde, «e nel 1997. Ma è innegabile: le diseguaglianze sono aumentate, ovunque, sempre».

Ma perché?

«In parte per la finanziarizzazione dell’economia, in parte per un problema fiscale. Le aliquote massime sono diminuite. Nel 1978 non avremmo mai sentito parlare di flat tax. Oggi è programma elettorale, e chiunque parli di aumentare le imposte perde le elezioni. Non ha il voto neanche di coloro che ci guadagnerebbero. Nessuno ha mai voluto pagare le tasse. Chi ha osato dire che sono belle, Tommaso Padoa Schioppa, è stato massacrato. Però credo che nei prossimi anni cambierà la coscienza che abbiamo del problema. I dati che ci martellano negli ultimi mesi, sugli italiani poveri, su quelli sotto la soglia di povertà, sui cosiddetti working poors occupati ma poveri: tutto ciò ci spingerà a correggere il tiro. Per ora, però, l’elettorato non si è ancora svegliato. E ha votato per chi gli sembrava in grado di proteggerlo».

Perché la sinistra ha smesso di essere un riferimento per le categorie vulnerabili?

«Perché non è stata capace di difenderle. La storia è andata così: non le ha difese nessuno. La globalizzazione ha tolto dalla miseria miliardi di persone, ma non è stata governata con regole che evitassero di marginalizzare i più deboli. Neanche la sinistra negli ultimi vent’anni è stata in grado di farlo. Non ne ha avuto la forza o non ne ha avuto la coscienza. Ma soprattutto non ne ha avuto la forza, di fronte a un potere che era più grande, quello del corso dell’economia, della tecnologia».

Come può riacquistare rappresentanza?

«Beh, per la gente questi nuovi partiti populisti sono una via di fuga. È da vedere se poi sono alternative all’altezza».

All’inizio di questa intervista si è detto “allarmato”.

«Viviamo in un momento di incertezza totale, globale. Un tempo si era certi che alcuni parametri – quelli per stare in Europa, il rapporto debito/Pil, le alleanze internazionali – sarebbero stati comunque rispettati. Invece oggi sembra saltare tutto. Le pare normale che Trump ripudi il trattato sul nucleare iraniano, un patto che ha richiesto 12 anni per arrivare alla firma, con altri sei Paesi? Io non dico che così si arrivi a una guerra, per carità. Ma è logico essere allarmati».

Così questo, di tutti i momenti storici che ha vissuto…

«…mi sta dicendo che sono vecchio? Guardi, corro 9 km in meno di un’ora a mattine alterne, ho quasi smesso di fumare il toscano. La vecchiaia bisogna anticiparla, cioè vivere come se si avessero 10 anni di meno. Viaggiare, andare in Cina e il giorno dopo a Roma. Essere insomma un po’ incoscienti. Poi un giorno pum, scoppieremo. Il botto sarà improvviso e unico. Siamo mortali, e come tali dobbiamo comportarci».

Lei alla mia età com’era?

«Grasso. Nell’animo ero come oggi, un incosciente. Non sono cambiato. Anche quando sono stato rottamato… ho visto con soddisfazione che poi il prezzo del rottame saliva. Mi chiamano a fare tre, quattro conferenze al giorno, ne scarto la massima parte. Ieri ho fatto lezione in una terza media. Dovevo spiegare loro la Cina. Ho detto loro: la Cina è un Paese che ha 22 volte gli abitanti dell’Italia. Con città grandi 500 volte Bologna. Bisogna spiegarle così, le cose, ai ragazzi. E tutte queste persone devono mangiare, ora chiedono la carne nel piatto tutti i giorni. Vede, c’è stato un grande cambio di prospettiva del partito comunista cinese. Un tempo si ponevano verso le democrazie liberali dicendo “cosa volete, siamo un Paese in via di sviluppo…”. Oggi ci guardano e dicono: voi avete un problema, noi cresciamo senza i diritti, facciamo star meglio la nostra gente, voi non siete capaci di farlo più».

Gli arriva un sms. «È un mio amico. Dice: c’è il Giro d’Italia sull’Etna, quando ci andiamo noi? La mia decisione più giusta è stata vivere a Bologna. Ho la famiglia, gli amici. Se avessi traslocato a Bruxelles… non è che a settant’anni ti fai degli amici nuovi. Io vivo nella stessa casa da 50 anni».

Ed è sposato da 49 anni con Flavia Franzoni. Come si fa a stare insieme a lungo?

«Nel mio caso, bisogna avere una moglie paziente (ride). Anzi lo chieda a lei, che per me si è sacrificata molto. Conta avere interessi comuni. Ma più di tutto sono incontri fortunati. È come in politica: le persone stanno dove stanno bene. Se no, si cambia. Noi stiamo bene».

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
maggio 18, 2018
Interviste