Manovra: il coraggio di essere impopolari

Manovra: il coraggio di essere impopolari

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 23 Maggio 2010

Una manovra correttiva è sempre un esercizio difficile. Lo è ancora di più quando si è incessantemente ripetuto che non vi è niente da correggere. Comunque, visto che le correzioni sono necessarie, è bene farle in fretta, in modo da renderci più tranquillamente a riparo dalle tempeste che in questi giorni impazzano in Europa.

La fretta non può tuttavia esimerci dal tenere conto di alcuni principi fondamentali che riguardano le conseguenze della manovra stessa sulle condizioni di vita degli italiani, anche perché si parla di almeno 27 miliardi di euro, una somma cospicua, riguardo alla quale non è certo indifferente vedere dove questi soldi vengono presi.
Partiamo dalla constatazione che in quasi tutti i paesi sviluppati il lavoro ha perso progressivamente terreno nella distribuzione del reddito ma che in Italia questa perdita è stata superiore a quella degli altri. Negli ultimi quindici anni la quota di Pil che va a remunerare il fattore lavoro ( pensioni comprese) è calata di otto punti percentuali. Essa è passata dal 77 al 69% : un calo enorme che, in cifra assoluta,si colloca intorno ai 130 miliardi di euro.

Questo calo ci ha portato in linea con gli altri Paesi avanzati ma con una grande differenza di fondo. La differenza sta nel fatto che, di fronte a una quota di Pil del 69%, il lavoro contribuisce all’insieme dell’entrate tributarie per oltre l’80%. Possiamo perciò ragionevolmente stimare che in Italia il lavoro paghi quasi 50 miliardi di tasse in più rispetto alla quota di reddito percepita. Si tratta di una redistribuzione rovesciata rispetto a paesi come la Francia e la Germania che, attraverso lo strumento fiscale, trasferiscono risorse nette al lavoro. Il tutto, naturalmente, senza tenere conto dell’evasione che, in via prudenziale, è stimata intorno ai 100 miliardi e che è generata dal lavoro per una quota nettamente inferiore al 69%. Anche in conseguenza dell’evasione la quota del lavoro si vede perciò sottrarre ulteriori margini di reddito.

È chiaro che non è compito della così detta manovra aggiuntiva sanare questi squilibri, che sono anche la conseguenza della globalizzazione e di nuovi rapporti di forza nell’ambito internazionale. Penso tuttavia che il ministro dell’Economia, invece di rincorrere disperatamente tanti diversi addendi per arrivare all’agognata somma di 27 miliardi, farebbe bene a meditare su queste peculiarità e, sensatamente, a considerare l’opportunità di utilizzare questa contingenza per iniziare a restringere una divaricazione ormai insostenibile. Capisco che questo non è un obiettivo facile, soprattutto in un momento storico in cui il lavoro dipendente, pubblico o privato che sia, viene considerato come qualcosa di incidentale, da cui la storia si sta allontanando.

Dobbiamo inoltre convenire che molte regole del lavoro debbono essere cambiate in modo da rendere i lavoratori stessi più responsabili e più produttivi, ma questo non può avvenire attraverso un processo di marginalizzazione anche economica del lavoro stesso. E dobbiamo pure convenire che i lavoratori privilegiati e protetti debbono dare un doveroso contributo per farci uscire dalle difficoltà in cui siamo, ma non possiamo illuderci che il necessario sacrificio di ventimila pubblici dipendenti possa essere decisivo per il risanamento delle finanze pubbliche. L’esempio è importante in una società democratica ed è quindi giusto che anche la classe politica dia il suo contributo, come in analoghe circostanze avevo deciso diminuendo, rapidamente ed in silenzio, le remunerazioni dei ministri di ben il 30%. Questi passi nobili e necessari hanno effetti quantitativi assai scarsi di fronte ai grandi mutamenti a cui stiamo assistendo e di fronte alle necessità del Paese.

Non avendo oggi alcuna possibilità di sapere come questi 27 miliardi saranno raccolti ed avendo ragionati dubbi che la quasi totalità di essi possa venire da generici risparmi della spesa, mi sembra opportuno che il ministro dell’Economia si ponga almeno l’obiettivo di non squilibrare ulteriormente la distribuzione del reddito. Non è certo un compito facile soprattutto quando si è abolita l’Ici anche per le categorie di reddito più elevate e quando ogni suggerimento di usare le imposte a scopo almeno parzialmente redistributivo viene ritenuto un modo illegittimo di mettere le mani in tasca agli italiani. D’altra parte il mestiere del ministro dell’Economia non è mai stato un mestiere popolare. Tuttavia i peggiori ministri sono sempre stati quelli che hanno cercato la popolarità ad ogni costo.

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
maggio 23, 2010
Italia