Intervista a Famiglia Cristiana: “Ricomincio dal Mondo”

Romano Prodi all`ONU

Romano Prodi all`ONU

Famiglia Cristiana – 22 ottobre 2008

ESCLUSIVO – L’AFRICA, L’EUROPA, LA CRISI DEI MERCATI: PARLA ROMANO PRODI

«RICOMINCIO DAL MONDO»

Nella prima intervista da quando ha lasciato Palazzo Chigi l’ex premier ci parla del suo nuovo incarico per le Nazioni Unite. Ma  si toglie anche qualche sassolino…

di Francesco Anfossi e Luciano Scalettari

Versione integrale dell’intervista che sul cartaceo, per mancanza di spazio, è riportata solo parzialmente.

Prende dalla scrivania l’agenda Moleskine e comincia a leggere il diario del suo ultimo viaggio, quello in Iran, dove ha rivisto molti “vecchi amici” come Kofi Annan e numerosi rappresentanti dell’oligarchia persiana, a cominciare da Khatami. “Tanti colloqui di oltre un’ora in cui si parla con franchezza anche se con tanta retorica”, ha annotato.

Per la sua prima intervista da quando non è più presidente del Consiglio (con un’unica condizione, non parlare della situazione politica interna italiana) ha scelto il suo ufficio nel cuore di Bologna, in via Santo Stefano, il suo “buen retiro” dove ha amici e affetti. Ma Romano Prodi “a casa sua” ci sta poco, la sua “sesta vita” professionale (dopo l’Università, L’Iri, il Governo, la Commissione europea, il nuovo Governo) prevede il mondo: nell’agenda dei prossimi giorni ci sono la Francia e il Sudafrica e poi ancora New York, Palazzo di Vetro. “All’Onu dovremmo iniziare la stesura del rapporto sull’organizzazione delle missioni di peacekeeping in Africa. Una missione importante e delicatissima il cui successo dipenderà molto anche dal ruolo che avrà in futuro l’Unione africana, l’omologa dell’Unione europea”.

* Chi decide le operazioni di pace in Africa?

«Le Nazioni Unite, questo è un punto fermo. Quel ruolo sarà la stella polare nella stesura del mio rapporto».

* Eppure le missioni di peacekeeping in Africa sono rare e difficoltose.

«Dobbiamo partire da un fatto: ormai nessun Paese dell’Occidente, diciamo nessun Paese ricco, manda più truppe in Africa, a meno che non vi sia un motivo di diretto interesse».

* Dunque a mantenere la pace in Africa dovranno essere gli africani…

«Per questo occorre che la responsabilità di queste missioni sia assunta non dai singoli Stati ma dall’Africa nel suo complesso, ovvero dall’Unione africana, una struttura giovane, che deve crescere e rafforzarsi. Anche per le missioni di pace. La via l’abbiamo indicata quando ero alla Presidenza della Commissione europea, affidando per la prima volta all’Unione Africana sostanziose risorse per il peacekeeping: una mossa che è stata ritenuta allora azzardata e di cui oggi sono tutti contenti. Ripeto la frase che usai a Bruxelles: “L’Africa è sulle spalle dell’Europa, abbiamo un obbligo molto importante, morale, storico e politico. Tra Europa e Africa c’è un rapporto di amore e odio, dovuto al passato coloniale che dobbiamo trasformare in un rapporto del tutto positivo e nuovo”».

* L’Unione africana è una struttura molto fragile, sarà adeguata a un compito fondamentale per il Continente?

«L’Unione Africana è piena di difficoltà e contraddizioni, è strutturata in una serie di organismi e commissioni con carenze burocratico-amministrative, ma esiste. I suoi leader sono di altissimo livello, a cominciare dal presidente Jean Ping, questo africano con gli occhi a mandorla così penetranti, che ha intelligenza e sensibilità politica da vendere. Ma l’Unione africana deve avere il ruolo di garante, indispensabile per rappresentare la molteplicità degli Stati Africani».

* È vero che per fermare il genocidio in Ruanda sarebbero bastati mille caschi blu?

«Pare di sì. La riuscita degli interventi di pacificazione dipende infatti dai tempi con cui i caschi blu vengono inviati. Se si mandano subito ne bastano pochi. Per questo il problema è come riuscire ad essere rapidi ed efficienti in caso di crisi. Attualmente l’organizzazione delle missioni in Africa è quasi inesistente ed è un miracolo che si sia potuto fare quello che si è fatto».

* Che significa riorganizzare le operazioni di peacekeeping?

«Significa rivedere organizzazione, addestramento, logistica, trasporti, rapporti con le istituzioni regionali, mezzi. E anche stipendi, che sono molto bassi attualmente, e a volte vengono versati con ritardi drammatici o non sono affatto pagati. Bisogna avere anche un’unica catena di comando: nelle missioni di pace organizzate durante il mio Governo, in Albania e in Libano, c’era una struttura di comando lineare sostenuta da un accordo politico ferreo, come quello tra me, Chirac e Kofi Annan per il Libano. In quei frangenti bisogna decidere in fretta, perché il tempo è vitale. Al momento giusto, con un via, devono partire all’istante soldati, navi, aerei, truppe e mezzi di supporto».

* L’Italia è molto stimata per le sue missioni di peacekeeping in tutto il mondo, al punto che c’è chi dice che ci ha fatto dimenticare la brutta immagine che aveva alla fine della Seconda guerra mondiale…

«Questo è vero e dipende da due motivi. Innanzi tutto perché le truppe italiane hanno una struttura seria e ben addestrata. In secondo luogo perché hanno sviluppato al massimo questa doppia faccia militare e di assistenza alla popolazione. Corrisponde a una frase pronunciata nel 1956 dall’allora segretario generale dell’Onu, lo svedese Dag Hammarskjöld: “Il mantenimento della pace non è una lavoro da soldato ma solo un soldato lo può fare”».

* Come mai l’Africa in questi decenni non è cresciuta com’è accaduto invece ad altri Paesi, come India e Cina?

«Questo dipende dalla frammentazione del Continente in tanti Stati. La loro piccolezza e la mancanza di quella che gli inglesi chiamano governance, che potremmo tradurre con buon governo. Quello che mi angoscia è che la crisi economica internazionale frenerà anche quel poco sviluppo cui abbiamo assistito in questi anni. Abbiamo segnali ben precisi: stanno calando gli investimenti dall’estero e c’è un calo delle esportazioni. La sfida diventa quindi ancora più difficile. L’Unione africana deve poter godere di nuovi mezzi e di nuovo credito. Ed è chiaro che Gli Stati Uniti, il Giappone e l’Unione europea non sono sufficienti. Il nostro compito è portare a bordo anche le altre potenze: la Cina, l’India, i Paesi del Golfo, la Turchia, il Brasile, la Russia. In particolare la Cina, con il potere economico e gli interessi che ha in Africa deve assumersi nuove responsabilità che peraltro sembra intenzionata ad assumersi. È successo così anche per la missione in Libano, quando Pechino decise di inviare un suo piccolo contingente di caschi blu».

* Le relazioni fra Cina e Africa stanno diventando una questione cruciale. La presenza cinese è dirompente. C’è chi ne è molto preoccupato, perché la strategia è puramente di scambio, commerciale.

«Ho fatto questa domanda a tutti i leader africani. La risposta è interessante. Per l’Europa l’attivismo cinese può diventare un problema, ma è anche vero che la Cina è l’unica che sull’Africa fa una politica continentale, con una visione complessiva. Fa i propri interessi, è chiaro, ma ha avviato un processo concorrenziale, che vorremmo fosse fatto proprio anche da altri, nell’interesse dell’Africa».

* La Cina, però, non si pone alcun problema sulla questione dei diritti umani, del buon governo, di fare affari con dittatori o di vendere armi…

«Vi sembra che gli Stati europei se li siano posti davvero questi problemi? Perché li dovremmo porre solo alla Cina? Così replicano i presidenti africani. La Cina deve porsi in modo serio anche la responsabilità di sostenere e finanziare l’Unione Africana. A fianco del potere deve esserci anche la responsabilità. Teniamo conto che c’è un fatto senza precedenti nella storia: è la prima volta che un Paese esporta in modo massiccio e simultaneo capitali, uomini e tecnologie. Verso un intero Continente».

* Cosa comporta, secondo lei?

«Tra due o tre anni la Cina sarà il primo partner economico e commerciale dell’Africa. E con questo dovremo fare i conti. Entro il 2010, massimo 2011 supereranno l’Europa. Già ora sono il primo compratore del petrolio angolano e sudanese».

* Il ministro Tremonti dice che la crescita cinese assomiglia in modo preoccupante alla Germania del dopo Weimar. Fra 40 anni – scrive nel suo libro La paura e la speranza – potrebbe dichiararci guerra…

«Io penso che ci sia necessità di un progressivo coinvolgimento della Cina nelle relazioni internazionali. Se Tremonti pensa che l’alternativa sia fare guerra alla Cina, la faccia. Credo che abbiamo impostazioni diverse. Negli ultimi mesi del mio Governo, ho chiesto a Bush, a Putin, ai principali leader dei Paesi avanzati come vedevano il rapporto con la Cina fra vent’anni. Nessuno mi ha ovviamente potuto dare una risposta. Io dico che dobbiamo preparare un mondo multipolare, dove tutti stiano alle regole e rispettino gli accordi internazionali. Dobbiamo operare perché la Cina sia inserita nel tessuto e nella rete di questi rapporti internazionali. Se mi è permessa una battuta, piuttosto, ricordo che Tremonti aveva previsto che la nostra grande crisi sarebbe venuta da India e Cina. Invece è venuta da Wall Street. Dovrebbe rifletterci. Semmai la Cina sta aiutando ad arginare la crisi degli Stati Uniti».

* Si parla molto di Obiettivi del Millennio e della necessità di riequilibrare le disparità fra Paesi ricchi e poveri. Qual è la strada praticabile?

«Bisogna, intanto, parlarne con coerenza. Insistiamo molto sul riequilibrio,  ma appena due Paesi come Cina e India riescono a risalire la china con le proprie forze urliamo contro i pericoli della loro crescita. Piuttosto, dobbiamo creare le condizioni perché, domani, le grandi potenze – Stati Uniti, Europa, Russia, Cina, India – possano avere relazioni equilibrate. Per dieci anni ha dominato l’idea di un mondo unipolare, in cui un Paese è in grado di comandare da solo. La guerra in Iraq l’ha cancellata, e non solo perché quella guerra non è stata vinta, ma anche perché nel frattempo c’è stata la crescita della Cina e un atteggiamento più assertivo della Russia e una nuova presenza indiana. Adesso viviamo in un mondo dove c’è una potenza superiore alle altre, gli Stati Uniti, ma non è certamente l’unica. Viviamo in una realtà internazionale che va gestita».

* Significa forse un ritorno a una sorta di Congresso di Vienna?

«Può darsi. Penso sia positivo che ci si renda conto che il mondo è sempre più multipolare, e questo richiede maggiore sforzo di accordi e di mediazioni a livello internazionale».

* Nel suo nuovo ruolo gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Cina, la Russia, saranno i primi interlocutori per mettere insieme risorse e mezzi per creare la struttura del peacekeeping. Quale sarà la strategia?

«Quand’ero presidente dell’Unione europea, ho lavorato molto per rafforzare il multilateralismo. Lo stesso deve accadere per la struttura di mantenimento della pace: con nuovi accordi per il versante economico e logistico, e con il rafforzamento del ruolo dell’Onu per la parte politica».

* In Africa, i più recenti conflitti sono stati risolti mettendo semplicemente insieme al potere i contendenti. Così è avvenuto, ad esempio, in Kenya e in Zimbabwe. Poi le missioni dei caschi blu devono tenere insieme le situazioni di estrema tensione che queste soluzioni creano. Che ne pensa?

«Il fatto è che, spesso, è l’unica possibilità. Queste soluzioni, però, possono essere efficaci solo grazie a mediazioni forti e autorevoli, come sta avvenendo con Kofi Annan e Mbeki, in Kenya e in Zimbabwe. Non è cosa da poco. Quello che manca è proprio un’adeguata struttura di peacekeeping anche per accompagnare l’applicazione degli accordi che nascono da queste difficili mediazioni. E non intendo solo i soldi e i soldati: il peacekeeping si fa anche con i militari, ma il ruolo di prevenzione e di dialogo lo fanno i diplomatici e la politica internazionale, che è parte integrante del peacekeeping. Oggi, ad esempio, è molto preoccupante la situazione del Congo orientale che rischia di diventare esplosiva. Ma le strutture adeguate per intervenire in fretta non ci sono».

* Finché la trattativa sul conflitto somalo è stata guidata dall’Italia si sono ottenuti risultati. Quando è passata in mano ad altri, si è di nuovo inceppato il processo di pace. È d’accordo?

«Gli uomini che l’Italia aveva messo in campo conoscevano probabilmente molto meglio degli altri la realtà e la situazione somala».

* Che relazione vede fra la Corte penale internazionale e il peacekeeping?

«Mi sono trovato ad assistere a un interessantissimo dibattito sull’eterno dilemma fra giustizia legale e riconciliazione. I leader africani presenti erano quasi tutti schierati per la riconciliazione. È giusto che chi commette delitti venga punito, ma c’è il rischio che questo porti al riaccendersi del conflitto. Il primo nostro obiettivo è sostenere la pacificazione e la riconciliazione. Il fare giustizia non deve far dimenticare che ci sono popolazioni esposte alle conseguenze di eventuali nuove tensioni. E il loro diritto alla vita viene prima. Fatta salva l’autonomia doverosa della Corte penale internazionale, il quando e il come usarla deve tenere conto di questi aspetti».

* Che ne pensa del modo con cui l’Europa ha gestito la crisi? L’Unione e i suoi governi hanno dimostrato rapidità di decisione, affiatamento e soluzioni più convincenti degli Stati Uniti nel salvataggio della struttura finanziaria ed economica…

«Penso quello che ho sempre detto. L’Europa reagirà al processo di scollamento, soprattutto dopo i referendum francesi, irlandesi e olandesi, solo in conseguenza di una grande crisi, quando la paura fa novanta. Di fronte a questo egoismo sfaccettato soltanto le bastonate, purtroppo, potranno riportare l’Europa sui binari giusti. E mi sembra che quello che sta avvenendo in questi giorni confermi queste previsioni».

* Tra l’altro i Governi hanno abbandonato il liberismo senza regole, il laissez-fare, per tornare a una regolamentazione del mercato e a un intervento diretto pubblico, con politiche di deficit spending, come le definiva il grande economista Keynes…

«Qui siamo alla tragicommedia. Quando parlavo della necessità di regolamentare l’economia, quando dicevo che Keynes non era morto, venivo tacciato con disprezzo di essere “quello dell’Iri”. Oggi sono tutti keynesiani e tutti vogliono statalizzare le imprese… In realtà l’economia trova le sue fondamenta nel mercato, ma ha bisogno di severi strumenti di regolamentazione e sorveglianza. Strumenti che non possono non essere nelle mani dell’autorità politica, nazionale e sovranazionale. Eppure per anni mi sono dovuto sorbire le prediche di coloro che sostenevano che la mano invisibile dei mercati era sufficiente a risolvere ogni problema. In questi giorni mi sto godendo un sacco di soddisfazioni sul piano intellettuale: si è scoperto che occorre anche la mano ben visibile dello Stato. Mi hanno attaccato perché venivo dall’Iri e oggi gli stessi propongono rimedi che assomigliano più alla vecchia pianificazione sovietica che all’Iri».

* Si parla di una nuova Bretton Woods, la Conferenza che regolamentò i mercati fissando i rapporti di cambio tra i Paesi Occidentali, in cui il dollaro (agganciato all’oro) era la moneta regina…

«Sì, sono favorevole, anche se non si possono sapere gli esiti di una conferenza del genere prima della sua conclusione. Ma se si fa una nuova Bretton Woods dobbiamo rivedere i rapporti di forza tra il dollaro e le altre monete, a cominciare dall’euro. Non siamo ancora all’utopia di Keynes della moneta unica mondiale, ma è certo che la nuova Bretton Woods per essere efficace dovrà stabilire un nuovo ordine economico mondiale. E in ogni modo non si potrà non tener conto dell’esistenza dell’euro e dei grandi cambiamenti dell’economia mondiale».

* Eppure in Italia c’è che dice che si stava meglio con la lira, che in una fase simile si sarebbe potuto facilmente svalutare facilitando le esportazioni.

«A parte il fatto che si creerebbe una situazione di insolvenza tragica e di impoverimento generale con tassi d’interesse alle stelle e fughe di capitali, mi viene in mente le frase che mi disse il Presidente cinese ai tempi in cui l’euro – quando la Repubblica popolare cinese vi aveva investito parte delle sue riserve – si era un po’ deprezzato. Mi disse che seguendo il mio suggerimento di investire in euro non aveva fatto un buon affare, ma che avrebbe continuato a comprare euro, sia perché si sarebbe rivalutato (come poi avvenne), sia perché – soprattutto – l’euro per la Cina costituiva una grande novità politica, di differenziazione dallo strapotere del dollaro, uno strumento di multipolarità. Ecco perché l’euro è così importante per il futuro di tutti noi. Quando penso a quelli che vogliono il ritorno alla lira…»

* Oggi si parla con sempre più insistenza di rivedere i vincoli-capestro di Maastricht, anche per via dell’aumento di spesa pubblica necessaria al salvataggio delle banche…

«Quando diedi la famosa intervista a Le Monde dicendo che come tutte le cose rigide il Patto di stabilità era stupido, sono stato letteralmente massacrato. Anche allora, ai tempi in cui Monti ed io lavoravamo per rendere il Patto più intelligente, scrissi che solo una crisi ci avrebbe permesso di andare avanti. Ma c’è un’altra cosa…»

* E cioè?

«È chiaro che il Patto di stabilità avrebbe dovuto essere accompagnato da una maggiore autorità in campo di politica economica a livello europeo. Accanto ad ogni banca centrale c’è in ogni Paese un ministero dell’Economia che prende decisioni di politica economica. La Banca centrale europea (Bce) ha accanto gli innumerevoli ministri dell’Economia che prendono decisioni solo all’unanimità e quindi non hanno quasi nessuna possibilità di decidere. Il problema della Bce è la sua solitudine. A fianco della politica monetaria deve esserci sempre una politica economica».

* Che ne pensa della politica italiana sull’immigrazione?

«L’Italia vuole gli immigrati di notte, per fare i turni in fabbrica, ma non i loro bambini di giorno. Vuole le badanti, ma solo quando badano. Poi devono scomparire».

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
ottobre 22, 2008
Italia

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