Fiat trovi un accordo con governo e sindacati. L’Italia non può perdere l’industria dell’auto

Il caso Fiat
L’industria che l’italia non può perdere

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 30 settembre 2012

Il comunicato finale dell’incontro col Governo e le discussioni di un’intera settimana non sono serviti a chiarirci le idee sulla futura strategia della Fiat.  Il comunicato stesso dice tutto e non dice nulla. Da un lato esso sembra prendere impegni per una sua forte presenza in Italia ma, dall’altro, non indica i passi da compiere per raggiungere quest’obiettivo.

Ci rendiamo perfettamente conto che l’industria automobilistica europea si trova in una delle peggiori fasi della sua storia, con una domanda crollata in tutti i paesi e un’offerta sempre più concorrenziale da parte di vecchi e nuovi protagonisti.  La capacità produttiva in eccesso è senza precedenti, mentre le previsioni volgono al peggio e ci parlano di un prolungarsi della crisi per almeno due anni.

Il gruppo Fiat-Chrysler ha adottato una strategia di attacco nel mercato americano utilizzando al massimo le sinergie della fusione fra le due case automobilistiche ed ha trasferito a Detroit una poderosa batteria d’innovazioni e di modelli provenienti dal patrimonio di esperienze e di ricerche accumulate nel tempo a Torino. Sessantasei nuovi modelli di auto sono disponibili ai concessionari americani e le quote di mercato aumentano di conseguenza.

In Europa la strategia del gruppo è tutta diversa: le auto nuove non si vedono e la gamma che i dealers possono offrire è molto più scarsa di quella dei grandi concorrenti.  E’ ovvio che le quote di mercato si riducano di conseguenza, lasciando uno spazio sempre più ampio non soltanto alle case asiatiche ma soprattutto a quelle tedesche. In passato questo avveniva nella gamma alta, ora accade in tutti i segmenti.

In Italia la produzione si è talmente ridotta che importiamo più auto col marchio Fiat di quante ne esportiamo: un record davvero impensabile. Nonostante questo, le vendite sono talmente cadute che i concessionari si guardano intorno alla ricerca di qualche prodotto sostitutivo, da qualsiasi parte del mondo esso provenga.

Questa strategia di ritirata viene giustificata dal fatto che non si producono nuovi modelli quando il mercato è così negativo. Può anche essere che, nel brevissimo periodo, questo comportamento minimizzi le perdite ma è certo che esso distrugge il futuro di ogni casa automobilistica, indebolendone la forza di penetrazione, deteriorando l’immagine di fronte ai clienti e facendo progressivamente esaurire la rete di vendita.

Una simile politica, che si è ormai prolungata nel tempo e che non sembra volere mutare nel prossimo biennio, non può che provocare quello che è chiamato “effetto senescenza” dell’impresa. Ed è noto fin dall’antichità che la vecchiaia è, per definizione, l’anticamera della morte.

Dato quindi che l’attuale strategia non può durare a lungo, ci si aspettava che l’incontro col governo, anche se non risolutivo di tutto, potesse servire a chiarirci le idee su qualcuno di questi interrogativi. E’ evidente che, andando avanti in questo modo, l’esito non può che essere quello di una progressiva uscita dal mercato, con la conseguente chiusura delle fabbriche.

L’Italia sarebbe quindi l’unico grande paese europeo senza una propria casa automobilistica e senza fabbriche di produttori stranieri, con un danno irreparabile sull’indotto del settore e sulla bilancia commerciale.

Non vedo proprio che vi siano le condizioni per tale condanna. Le automobili le sappiamo produrre. Alcune delle fondamentali innovazioni della componentistica e nella motoristica degli ultimi tempi sono nate a Torino, proprio nei centri di ricerca gravitanti attorno alla Fiat. Anche se la sfiducia nei gruppi di progettazione e ricerca aumenta di giorno in giorno, i ricercatori e i tecnici aspettano solo una missione precisa per accettare una sfida che essi si sentono in grado di vincere, confortati anche dal fatto che il trasferimento verso Detroit dei risultati del loro lavoro ha costituito un elemento non secondario della resurrezione della Chrysler nel mercato americano.

Resta a questo punto il problema del costo del lavoro e delle relazioni industriali. Sono esse così deteriorate da non permettere la sopravvivenza di fabbriche competitive con le migliori imprese europee?  Se affrontiamo quest’aspetto dal punto di vista del puro costo orario, la risposta è negativa.

Esso è nettamente concorrenziale, oneri sociali inclusi, con quelli degli altri grandi paesi europei e nettamente inferiore a quello tedesco. Tale costo non può certamente competere con quello dei paesi dell’Europa orientale o dell’ex–Jugoslavia. Anche l’industria germanica ha trasferito verso di essi una parte della propria attività, costruendo tuttavia rapporti d’integrazione con la cospicua capacità produttiva e con i centri di ricerca rimasti in patria. Questo è stato possibile perché l’innovazione nelle tecnologie e nei modelli ha permesso un continuo aumento delle quote di mercato.

Questo è possibile anche in Italia, dove gli ingegneri costano molto poco e sono molto bravi. E’ vero che le relazioni industriali, che tanto incidono sulla produttività, hanno bisogno di uno sforzo innovativo non certo facile in una situazione deteriorata come quella italiana, ma è altrettanto vero che questo sforzo è stato portato avanti con successo in molte nostre imprese meccaniche e credo che, di fronte alla drammaticità della situazione, i sindacati si sentano in dovere di proporre e accettare le necessarie innovazioni.

Su questi temi il comunicato congiunto non ha purtroppo detto nulla: speriamo che essi siano presto affrontati con la dovuta franchezza. Non possiamo rassegnarci a perdere la nostra Italia pezzo per pezzo. Soprattutto se questo pezzo si chiama Fiat. Alla quale, nonostante tutto, siamo ancora molto affezionati.

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
settembre 30, 2012
Italia