Auto: l’innovazione è la vera sfida da vincere

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 06 Agosto 2010

In un paio di decenni tutto è cambiato nel mercato dell’automobile. Esso era dominato dal Giappone, dagli Stati Uniti e da alcuni Paesi europei tra i quali, seppure in misura decrescente, si poteva annoverare l’Italia. Sono poi entrati in forza i coreani e quindi i cinesi e gli indiani, mentre in Europa la produzione si spostava verso i Paesi a più basso costo di mano d’opera.

Agli investimenti in Spagna sono seguiti quelli in Polonia, Ungheria, Slovacchia e, infine, i nuovi progetti in Serbia. Naturalmente non solo nella produzione di automobili ma anche della componentistica. Questo grande terremoto continuerà anche in futuro, forse con maggiore velocità, se pensiamo alla strategia indiana di immettere sul mercato vetture affidabili a prezzo bassissimo e alla realtà cinese, che già costituisce il più grande mercato del mondo e che, seguendo la strada tracciata dalla Corea, ha iniziato un cammino di miglioramento della qualità che, in pochi anni, porterà il prodotto cinese verso i più elevati livelli di affidabilità e di innovazione anche nei settori del futuro come l’auto elettrica.

In questo periodo di tempo è cambiata la natura stessa della fabbrica di automobili, che è diventata il punto di arrivo di componenti più complessi, messi insieme con un’impiantistica sempre più costosa e sofisticata.

Entrando nelle più moderne fabbriche di auto si ha immediatamente la sensazione fisica del cambiamento: i robot dominano la scena prima occupata dagli operai e il costo del capitale pesa sempre di più rispetto alcosto del lavoro.

Tanto è vero che la quota spettante al lavoro è sempre largamente inferiore al 10% del costo del prodotto. Se Pomigliano e Mirafiori si inseriscono in questo quadro qualcuno potrebbe chiedersi perché il problema del lavoro sia determinante per il futuro dell’automobile italiana.

La risposta è purtroppo semplice: il nuovo quadro mondiale ha reso la concorrenza più dura e l’enorme investimento di capitale rende necessario il completo sfruttamento degli impianti e la loro flessibilità di fronte a un mercato sempre più difficile.

Anche se il costo dell’ora lavorata rimane importante, ben più decisive sono l’intensità e la certezza dello sfruttamento degli impianti.

In questo quadro ben poco servono gli incentivi all’acquisto, che producono picchi di domanda che poi crolla non appena gli incentivi scompaiono. Un poco di più servono i contributi pubblici che Stati Uniti, Francia e Spagna hanno applicato con diverso livello di sosfisticazione, ma che in Europa trovano una crescente difficoltà di applicazione in conseguenza delle regole comunitarie.

Eppure proprio nel quadro descritto in precedenza vi è ancora spazio per la produzione di automobili anche nei Paesi ad alto costo del lavoro, come sta dimostrando la Germania, che negli ultimi mesi ha addirittura aumentato di oltre il 100% le proprie esportazioni in Cina. E le ha aumentate non certo perdendo denaro in una vana rincorsa al ribasso dei prezzi ma portando sul mercato prodotti cari e innovativi.

Questo, in Europa, può tuttavia avvenire solo in presenza di un progetto di lungo periodo condiviso da governo, imprese e sindacati. Un progetto che preveda flessibilità nell’utilizzazione degli impianti e nell’impiego della mano d’opera di fronte alla sicurezza del salario e del posto di lavoro, ma che ha bisogno di un impegno del governo non solo per fare rispettare gli accordi intervenuti ma per mettere in atto tutti gli investimenti accessori perché il patto possa funzionare, a cominciare da un sistema di welfare flessibile come la fabbrica flessibile. A differenza della Germania non si può certo dire che il governo sia consapevole del suo ruolo e dell’importanza del suo compito.

Anche la Fiat deve però presentarsi a questo tavolo con le carte in regola. Se le vendite in Italia sono nell’ultimo mese crollate del 36%, cioè molto più della media dei principali concorrenti e se la sua quota di mercato in Europa cala sensibilmente, la ragione non è solo nelle diverse relazioni sindacali ma anche nel rallentamento dell’uscita di modelli nuovi in un mercato sempre più raffinato ed esigente.

Sul tavolo dell’accordo bisogna cioè portare non solo progetti per la totale utilizzazione degli impianti ma anche modelli nuovi per sofisticazione, qualità e innovazione. Con l’accordo con la Chrysler ci si è avvicinati alle dimensioni quantitative sufficienti per stare nel mercato. Adesso bisogna dimostrare che queste dimensioni sono utilizzate per conquistare anche i mercati europei e non solo il Brasile o la Turchia.

A Torino, come dimostrano alcuni recenti esempi soprattutto nel campo motoristico, le automobili le sanno ancora progettare molto bene. A questo punto bisogna creare le condizioni perché si possano ancora fabbricare in Italia e vendere in Europa. Ognuno deve esercitare bene il suo ruolo, sapendo che la mancanza di accordo priverà l’Italia dell’ultimo residuo di industria automobilistica che ancora le rimane.

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
agosto 6, 2010
Italia