Le mosse di Trump e il movente economico nell’incontro con Putin

Le mosse di Donald e il movente economico

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 14 agosto 2025

Sono passati poco più di sei mesi da quando Trump ha cominciato a esercitare il ruolo di Presidente degli Stati Uniti. In tutti questi mesi abbiamo definito la sua politica come imprevedibile, sottolineando in molti casi l’aspetto quasi bizzarro delle sue decisioni.

Di bizzarria e di imprevedibilità ne abbiamo vista tanta ma, con il passare del tempo, emerge un disegno sempre più chiaro. Un disegno peraltro espressamente contenuto nello slogan adottato da Trump stesso: rendere sempre più forte il potere economico e politico degli Stati Uniti.

Si tratta di un progetto comunicato spesso in modo estemporaneo, ma meticolosamente preparato con anni di lavoro da parte di tanti collaboratori e think tank. Un disegno che progressivamente prevale su tutti gli aspetti folcloristici che pure tanto ci sorprendono.

La più importante innovazione di questo disegno è l’impressionante uso della sistematica subordinazione degli strumenti economici a quelli politici, spesso associata a vere e proprie minacce.

Legami fra i due mondi sono sempre esistiti ma mai sono stati così espliciti e così mirati. A titolo di esempio, le barriere doganali sono state usate con l’India per dissuadere il paese dall’acquisto di petrolio russo e in Brasile per impedire ogni azione giudiziaria nei confronti dell’ex Presidente Bolsonaro, alleato politico ed amico stretto di Trump.

Con il Messico è stata usata l’arma delle tariffe per contenere il fenomeno migratorio e l’esportazione verso gli Stati Unit del Fentanyl, mentre, nei confronti della Spagna, sono state minacciate ritorsioni quando il governo spagnolo si è dimostrato non propenso all’acquisto di armi americane.

In tutti questi casi emerge la caratteristica nuova dell’uso esplicito degli strumenti economici per esercitare una interferenza diretta nella politica di questi paesi.

I dazi non sono più unicamente rivolti a riequilibrare la bilancia commerciale e il bilancio americano ma diventano lo strumento per aumentare il potere politico degli Stati Uniti (Make America Great Again).

Questi metodi sono stati usati con un raffinato livello di sofisticazione nei confronti dell’Unione Europea.

All’imposizione di pesanti dazi si sono infatti aggiunte parallele pressioni di carattere politico come l’aumento dell’acquisto di armi americane, l’impegno di importare nell’Unione Europea 750 miliardi di dollari di gas liquefatto e di mettere in atto investimenti industriali europei negli Stati Uniti per un valore di 600 miliardi di dollari. Il tutto nello spazio di tre anni, cioè entro il termine del mandato della Presidenza Trump.

A parte la contraddizione esistente tra l’obiettivo di fare crescere la forza militare europea e quello di fondarsi in prevalenza su armi americane, è interessante mettere in rilievo la ragione e i limiti delle altre due imposizioni. Riguardo al gas, oltre alla volontà di compiacere i produttori di shale gas, tra i massimi sostenitori di Trump, vi è anche quello di rendere sempre più dipendente dagli Stati Uniti l’approvvigionamento energetico europeo, con costi che superano più di tre volte i prezzi interni americani.

Questo senza tenere conto del fatto che già oggi gli Stati Uniti sono il maggior fornitore di LNG all’Europa, per un valore di 75 miliardi all’anno e che, dal punto di vista tecnico, non vi è alcuna possibilità di triplicare l’attuale livello di esportazione in tempi così brevi. A questo si aggiunge che la domanda europea di gas non è destinata a crescere e la fornitura aggiuntiva americana andrebbe a sostituire il gas proveniente da altri paesi, rendendo l’Europa ancora più dipendente dagli Stati Uniti.

Ancora più evidente è la convergenza fra obiettivi politici ed economici nella richiesta di un impressionante aumento degli investimenti industriali europei verso l’America. Siamo infatti consapevoli del surplus della nostra bilancia commerciale nei confronti degli Stati Uniti ma, come ben sappiamo, questo squilibrio viene molto attenuato dall’impressionante superiorità americana nel campo dei servizi e dell’high tech, di cui Trump non tiene mai conto, se non per impedire che essi siano sottoposti alle elementari regole fiscali.

Mentre la superiorità americana nell’high tech è evidente e da tutti conosciuta, molto meno nota è la superiorità europea nell’ampio campo della manifattura. Un sistematico trasferimento di nuove attività produttive negli Stati Uniti avrebbe solo la conseguenza di accelerare il nostro processo di deindustrializzazione.

Che questo disegno possa avere un facile successo è assai discutibile. Non solo per le ricordate difficoltà tecniche nel trasporto del gas, ma anche per il semplice fatto che, nei tanti settori manifatturieri in cui l’Europa gode di indiscussa superiorità, gli Stati Uniti non dispongono più delle conoscenze e, soprattutto, della mano d’opera necessaria per dare vita a una nuova primavera industriale americana.

Il disegno comunque procede e si farà valere anche nell’incontro che Trump avrà domani con Putin in Alaska. Un incontro in cui il Presidente americano metterà sul tavolo le sue condizioni politiche per porre termine al conflitto di Ucraina, ma affiancherà ad esse gli obiettivi economici americani riguardo all’onere della ricostruzione dell’Ucraina, al controllo del futuro mercato del gas russo e alle tante altre condizioni utili per fare l’America Great Again. Un tavolo in cui, oltre l’Ucraina, sarà, come sempre, assente l’Europa, ma che dovrà tenere conto della presenza invisibile della Cina che ancora condiziona ogni passo dell’economia e della politica russa. La Cina che sembra essere l’unico paese a cui gli Stati Uniti guardano ancora con un certo rispetto.

 

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Dati dell'intervento

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agosto 14, 2025
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