Corrono dietro al consenso ma suscitano il panico dei più attenti osservatori

Pensioni sostenibili: conto salato per l’abolizione della Fornero

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 21 ottobre 2018

Da qualche settimana gli esperti che si dedicano alle previsioni sull’economia mondiale non intravedono tragedie ma esprimono un’estrema prudenza, una prudenza accompagnata da una serie di punti interrogativi che ha ben pochi precedenti.

Prendiamo come esempio il recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale. Esso ha abbassato solo di un minimo le previsioni precedenti: nel 2019 l’economia globale crescerà del 3,7%, appena un soffio al di sotto delle previsioni di luglio. Tutto sommato non un terremoto, anche perché la crescita si distribuirà secondo un andamento abbastanza logico, con uno sviluppo minore nei paesi ricchi e qualcosa di più nei paesi in via di sviluppo.

Quando invece da questi dati generali si passa alle analisi più specifiche i dubbi e i punti interrogativi sono tanti e tali da attribuire ad ogni previsione un valore tutto sommato modesto.

La prima fonte di incertezza riguarda alcuni paesi come la Turchia, l’Argentina, il Pakistan e il Venezuela ed altri che navigano in acque perlomeno burrascose e che, soprattutto nel caso della Turchia, possono portare turbamenti non trascurabili all’economia mondiale.

Molti paesi in via di sviluppo hanno inoltre fortemente accresciuto i loro debiti in dollari. L’aumento dei tassi di interesse e la svalutazione delle loro monete rispetto al dollaro rende ancora più problematica la restituzione del debito stesso e quindi precario il loro futuro.

Un altro punto interrogativo riguarda gli Stati Uniti. Lasciamo stare l’obiezione di chi sostiene che una crescita cosi prolungata come quella americana non si era mai vista in passato e che, quindi, siamo di fronte a un prossimo cedimento dell’economia. Non vi è infatti alcuna legge economica che definisce la durata dei cicli positivi o negativi.

Il problema serio è se l’economia americana si trova di fronte alla necessità di una frenata. La diminuzione delle tasse e l’aumento delle spese che hanno dato le ali al boom stanno infatti portando il deficit pubblico a cifre iperboliche, mentre la disoccupazione, arrivata ormai ai minimi storici, rende difficile il mantenimento di una crescita sostenuta senza un improbabile aumento della produttività.

Ben più pesanti sono le incertezze che derivano dalle politiche commerciali. La guerra è già iniziata e nessuno può fare previsioni sul suo sviluppo futuro perché abbiamo già avuto casi di cambiamento radicale della linea del governo americano nei confronti del Canada e del Messico: dopo un inizio muscolare in cui si promettevano sfracelli si è infatti arrivati a un decente compromesso. È invece quasi certo l’aumento delle tensioni fra Cina e Stati Uniti. Una guerra commerciale fra questi due giganti non può che incidere in modo negativo sull’intera economia mondiale, sempre trascinata in alto o in basso dal comportamento del commercio internazionale.

Inoltre, a rendere ancora più incerto il futuro, ci si mette anche il petrolio. Il suo prezzo è passato in un anno da cinquanta a ottanta dollari al barile: vi è quindi la fondata possibilità di un suo ulteriore aumento, in conseguenza di quanto sta avvenendo in Iran, in Venezuela e Libia.

L’ultimo punto interrogativo riguarda purtroppo l’Italia, divenuta un osservato speciale. Non solo da parte delle autorità europee ma da tutti gli esperti di economia e finanza. Anche il ”rating” di Moody insiste sul fatto che proprio l’incertezza sul futuro del mondo avrebbe reso ancora più necessaria l’adozione di misure strutturali che sono ben poco presenti nel documento inviato a Bruxelles. Il problema della sostenibilità del nostro debito nel lungo periodo resta quindi dominante. Lo è stato nel rapporto di Moody, lo sarà in quello delle altre società di rating ma, soprattutto, lo sarà nel giudizio di Bruxelles e nel comportamento di coloro che posseggono i titoli del debito pubblico italiano.

Se poi consideriamo l’aspetto quantitativo della sostenibilità futura dei nostri conti, il capitolo delle pensioni rimane dominante: la riforma del sistema pensionistico contenuta nelle proposte del nostro governo conduce invece a squilibri crescenti nel tempo. Proprio quegli squilibri che hanno spinto Moody ad un giudizio così severo. Si tratta infatti di 7 miliardi di deficit aggiuntivo nel primo anno, 11.7 nel secondo, 17 nel terzo e così via per i decenni futuri.

Anni di dibattiti hanno certamente mostrato la presenza di incongruenze ed errori nella legge Fornero, ma essa affrontava in modo diretto l’ineludibile problema del rapporto fra l’allungamento della vita media e l’età pensionabile, ponendo un freno allo squilibrio, altrimenti sicuro, dei nostri conti pubblici.

Mi rendo conto che la decisione di abolire la legge Fornero è quella più popolare e perciò quella che ha più facilmente trovato l’accordo tra i partiti di governo perché va incontro alle aspettative (e anche alle esigenze) di tante persone. È tuttavia la decisione che rende incontrollabile il nostro deficit futuro.

Saremo perciò obbligati a riaffrontare subito il problema che la legge Fornero, gradita o sgradita, metteva sul tavolo. Possiamo modificarla con processi di flessibilità per diverse condizioni professionali, con pensionamenti scadenzati attraverso una progressiva diminuzione dell’orario di lavoro e con tante altre possibili innovazioni ma la necessità di adattare il sistema pensionistico ad una vita media che fortunatamente si allunga è ineludibile. Il non averlo fatto ha riscosso ovviamente un ampio consenso ma ha sollevato un punto interrogativo sul nostro futuro così grande da suscitare il panico dei più attenti osservatori.

 

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
ottobre 21, 2018
Articoli, Italia