Cercasi leader mondiali disposti a esporsi per fermare la guerra in Etiopia

Dialogo mancato – L’inerzia del mondo per il dramma in Etiopia

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 7 novembre 2021

Fino ad un anno fa l’Etiopia, nonostante la sua complessità e le sue divisioni, era ritenuta la speranza dell’Africa.

Certamente la sua complessità è tanta. Si calcola infatti che i suoi centoquindici milioni di abitanti appartengano a ottanta etnie diverse. La maggioranza è cristiano-ortodossa di rito copto, una percentuale che si avvicina ad un terzo è musulmana, mentre i cattolici sono intorno all’uno per cento.

Non volendo andare troppo indietro nel tempo, ricordiamo che, per quasi trent’anni, a partire dall’inizio degli anni novanta, il potere politico è stato saldamente in mano ai Tigrini, un’etnia che rappresenta soltanto il 7% della popolazione, ma che ha governato col pugno di ferro il paese, monopolizzandone tutta la classe dirigente, da quella civile a quella militare.

Sono stati anni non facili, nei quali il potere è stato conservato non solo con il controllo di tutta la società etiope, ma rafforzato dall’interminabile guerra con l’Eritrea, nella quale la posta in gioco era un inutile e limitato territorio sassoso, ma che ha tuttavia provocato oltre centomila morti.

Eppure sono stati anni, soprattutto i primi tre lustri di questo secolo, che hanno visto uno sviluppo economico senza precedenti. Uno sviluppo che, per un decennio, si è posizionato intorno al 10% all’anno. Non che l’Etiopia sia un paese prospero perché talmente miserevoli erano le condizioni di partenza che la povertà è rimasta dominante.

Tuttavia le caratteristiche di questo primitivo decollo economico erano più promettenti rispetto agli altri paesi africani: la crescita non si basava infatti sulla produzione di materie prime o di energia, ma anche su uno sviluppo industriale fondato su investimenti provenienti tanto dall’Europa che dalla Cina.

A questo si aggiungeva il ruolo particolare della capitale Addis Abeba, divenuta sede dell’Unione Africana, i cui uffici sono collocati in un moderno grattacielo al cui ingresso appare una modesta insegna con la scritta “dono del popolo cinese al popolo africano”.

Nel 2018 il quadro politico ha subito un mutamento radicale quando, attraverso elezioni democratiche, il potere è passato nelle mani di Abiy Ahmed, appartenente  all’etnia maggioritaria degli Oromo e figlio di padre mussulmano e di madre copta: davvero la speranza di una nuova primavera del paese.

Nel suo primo anno di potere Abiy è sembrato raggiungere risultati addirittura superiori alle aspettative: la pace con l’Eritrea, la promessa di nuove elezioni e una serie di impegni per la progressiva unificazione economica e sociale del paese. Un cambiamento così positivo da fare ottenere ad Abiy addirittura il premio Nobel per la Pace.

Una pace durata lo spazio di un mattino: il rinvio delle elezioni a causa del Covid ha provocato uno scontro politico con la regione del Tigrai, a cui si sono poi accompagnati conflitti armati, prima limitati e poi sfociati in una vera e propria guerra, fra il Tigrai e il potere centrale.

Una guerra che, come attestano le fonti dell’ONU, ha provocato migliaia di morti, infiniti ed incredibili episodi di crudeltà da entrambe le parti e milioni di persone ridotte alla fame e alla fuga dalle proprie abitazioni.

Una guerra che Abiy pensava di vincere in un baleno e che sembrava potesse vincere facilmente, ma che è diventata sempre più difficile, anche perché, all’Esercito di Liberazione del Popolo del Tigrai (TPLF) si è affiancata una componente militare appartenente alla stessa etnia degli Oromo (l’Oromo Liberation Army) e i combattenti tigrini  hanno potuto godere di un massiccio e acritico appoggio da parte della loro diaspora europea e americana.

L’iniziale fase vittoriosa del governo centrale, culminata con la conquista di Makalle (capitale del Tigrai) si è trasformata in una progressiva sconfitta.

Da qualche giorno la sconfitta si sta trasformando in disfatta: secondo le informazioni oggi diffuse le truppe ribelli sono ormai a meno di trecento chilometri da Addis Abeba e stanno quasi raggiungendo la strada che congiunge la capitale a Gibuti, unica via di transito verso il mare e arteria indispensabile per la vita della capitale.

Mentre la battaglia per Addis Abeba si avvicina, il governo federale ha ordinato lo stato di emergenza, con l’imposizione del coprifuoco e del controllo di tutti i media, mentre il primo ministro ha pronunciato parole di fuoco nei confronti di tutti coloro che direttamente o indirettamente appoggiano la ribellione.

Le notizie che arrivano dall’Etiopia ci obbligano quindi a concludere che alle battaglie in campo aperto si stia affiancando una guerra civile, in previsione della quale le autorità americane e russe hanno già consigliato ai propri cittadini di lasciare il paese.

Le Nazioni Unite e le autorità internazionali si sono dimostrate impotenti non solo nell’impedire il conflitto armato, ma hanno trovato ostacoli, a volte insormontabili,  perfino nel tentare di portare aiuti alle vittime della tragedia, mentre le sanzioni tentate da parte europea e americana non hanno avuto ovviamente alcun effetto.

Gli osservatori dell’ultima ora pensano che i leader del Tigrai si aspettino che Abiy, nonostante abbia vinto le elezioni in modo da tutti ritenuto “fair and free”, sia costretto a dimettersi, ma non possono non rendersi conto che, anche se sostenuti dall’aiuto della loro diaspora, costituiscono una minoranza nel paese e non possono pensare di ritornare a governarlo da soli.

Anche una vittoria con le armi sarebbe una finta vittoria. Solo un lungo e difficile dialogo, con il ripristino della legalità costituzionale, può salvare l’Etiopia dalla dissoluzione. Stati Uniti, Europa e Unione Africana hanno invece affrontato in modo assolutamente inadeguato il dramma dell’Etiopia, lasciando pensare che il soccorso umanitario e le sanzioni fossero sufficienti per porre fine al conflitto.

Nessuno dei responsabili della politica mondiale ha scelto l’unica via efficace: quella di esporsi personalmente recandosi in Etiopia per obbligare le parti a dialogare. Anche se tardiva questa scelta è ancora possibile.

 

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
novembre 7, 2021
Articoli, Italia