Prodi non mise la camicia nera

Giovanni Prodi

Giovanni Prodi

Articolo di Danilo Morini presidente dell’Associazione  Partigiani Cristiani di Reggio Emilia su L’Avvenire del 6 ottobre 2010

L’ultimo libro di Giampaolo Pansa I vinti non dimenticano ha dato occasione a molti quotidiani di pubblicarne un capitolo che – guarda caso – parla di Giovanni Prodi: fratello maggiore del più noto Romano, recentemente scomparso a Pisa dove aveva per anni insegnato alla Normale analisi matematica.

Nei precedenti libri Pansa ha dato prova di essersi ben documentato, ma questa volta (ed è difficile comprendere il motivo) la puntualità di documentazione è del tutto mancata. Su un quotidiano di cui Pansa è autorevole collaboratore, in prima pagina, è stata pubblicata una vignetta molto infelice sotto il titolo «Il fratello in camicia nera di Prodi»: in essa Romano sta alle spalle del fratello Giovanni raffigurato in camicia nera e con un cipiglio minaccioso. Ai tanti reggiani che hanno conosciuto la serena mitezza di Giovanni Prodi non rimane che sorridere.

A chi poi conosce la storia degli anni tragici del post 8 settembre 1943 non resta che dare del disinformato al vignettista. Giovanni Prodi infatti è stato arruolato negli anni 1944/45 nella Divisione Italia del ricostituito esercito delle Repubblica Sociale Italiana, ma non certo in modo volontario; inoltre i soldati di quel corpo non portavano affatto la camicia nera, ma bensì nelle mostrine «il gladio e l’alloro» di cui al titolo di un altro celebrato libro di Pansa.

Giovanni Prodi fu insomma uno dei 65.000 giovani delle classi 1924 e 1925 che sottostarono alla chiamata obbligatoria alle armi per i famigerati bandi del Maresciallo Graziani. In proposto scrive Pansa nel suo libro del 1991: «I bandi con la pena di morte. La ricerca e la cattura dei renitenti. Le rappresaglie sui genitori. I padri e le madri arrestati, picchiati, incarcerati. La ragnatela ripugnante delle spiate. I processi ai ragazzi disertori. Le fucilazioni nelle caserme. Le stragi di massa, come quella dell’aprile 1944 alla cascina della Benedica sull’Appennino ligure-alessandrino, un altro dei miei incubi da bambino. Le deportazioni in Germania dei renitenti catturati alla macchia (…) Fu seminato in quei mesi ciò che poi si raccolse nell’Italia appena liberata. Parlo del desiderio di vendetta. Intendo la voglia di farla pagare agli uomini in camicia nera che, per offrire al Mussolini di Salò il fantasma di un esercito, s’erano messi in quel tragico corteo».

Pansa scrive ora di aver appreso dell’arruolamento di Giovanni nella Divisione Italia dal libro Il Taccuino di Luciano Chiappini, egli pure arruolato dalla Rsi e finito dopo il 25 aprile 1945 nel campo di prigionia di Coltano come Giovanni. Alla domanda sul perché ha dedicato un capitolo a «Un Prodi a Coltano», Pansa risponde: «Perché nessuno ne ha mai parlato. Parliamo di Dario Fo e di Albertazzi, ma se c’è un parente di un protagonista della storia recente di questo Paese non se parla». Al che si può obiettare che sia Fo che Albertazzi si erano arruolati da volontari nei corpi armati della Rsi, pertanto c’è una bella differenza con il caso di Giovanni Prodi…

Ma Pansa, che ben conosce e frequenta Reggio Emilia sì da aver dedicato al nostro ambiente il suo recente bel romanzo I tre inverni della paura, poteva facilmente acquisire in loco una più ampia e diretta conoscenza sull’arruolamento di Giovanni Prodi e sulle sue successive vicende. Nel maggio 1999 la stampa locale ha dato notizia, con tanto di foto di gruppo, del ritrovo di 12 maturati classici nel Liceo cittadino nell’anno scolastico 1942/43 e tra essi c’era Giovanni Prodi, che propose di scrivere e scambiarsi le rispettive vicende militari dei difficili successivi anni 1944/1945; alcuni aderirono e si scambiarono le loro memorie con particolar riguardo a «gli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Perché rimanga un ricordo». Ecco qui di seguito alcuni essenziali brani dello scritto di Giovanni Prodi.

«Avevo compiuto 19 anni nell’estate 1944 in Germania, nel periodo di istruzione militare; ero stato destinato alla Divisione Italia. Eccettuati pochi volontari, eravamo tutti “disfattisti”; nella grande carta geografica d’Europa, stesa nel refettorio, mettevamo le bandierine sulle città conquistate dagli Alleati. All’inizio del 1945 la Divisione era attestata nell’alta Garfagnana. La compagnia Telefonisti, a cui appartenevo, si era insediata a Rometta Apuania, occupando la stazione ferroviaria che era chiusa. L’ambiente era così tranquillo che ci si poteva illudere che la guerra fosse finita. Anche il tempo era bello; la primavera era in anticipo. Ricordo che potei fare il primo bagno il 19 marzo nel fiume Aulella. La nostra vita era attiva: non era possibile essere pigri quando si era agli ordini del maresciallo Telesforo Pirola».

«Al mattino si caricava il materiale su un carrettino che veniva trainato dalla cavalla Ulma e ci mettevamo a riparare le linee telefoniche. Per Telesforo era come se fosse già cominciata la ricostruzione, a partire dai telefoni di Stato. Veramente ogni tanto si sentiva qualche colpo di fucile sparato dai partigiani, ma l’ordine di Telesforo era di non rispondere: “State tranquilli – ci diceva –. Vedete: non sanno sparare”».

«La Pasqua quell’anno cadeva il primo Aprile; ricordo che Telesforo ci insegnò la Messa degli Angeli, che il giorno di Pasqua cantammo assieme alla gente del paese. Quella Pasqua fu il momento culminante, ma anche la fine della nostra situazione quasi magica di tranquillità. Nei giorni che seguirono le armate alleate si mossero per dare la spallata finale tanto attesa. Il comandante della nostra compagnia (capitano Gibelli, di Pavia), uomo saggio e benvoluto da tutti, aveva già iniziato le trattative con i comandi partigiani, a cui certamente era noto che il nostro arruolamento era avvenuto sotto minacce per noi e le nostre famiglie».

«Penso che una parte importante delle trattative con i partigiani le abbia avute il nostro commilitone torinese Bertola. Questi era un personaggio fra i più singolari che io abbia mai incontrato. Era molto colto non solo nella fisica e matematica, ma anche in molti campi scientifici; io, che stavo per cominciare gli studi universitari e che ero già orientato verso la matematica avevo molta ammirazione per lui. A differenza di tutti noi, si sottoponeva volentieri ai turni di guardia notturna. Ma i turni di guardia avevano anche un’altra utilità: gli consentivano di mettersi in comunicazione con i partigiani senza farsi notare. A seguito delle trattative di Bertola una parte molto consistente della Compagnia, con il comandante in testa, raggiunse la Brigata partigiana sulle colline vicine. Il piano di Bertola era quello di portare con i partigiani tutta la compagnia, ma – come mi aveva confidato – il piano esigeva l’eliminazione di Telesforo perché – secondo le sue valutazioni – non si sarebbe lasciato intimidire e avrebbe dato l’allarme. Io fui sdegnato da quella proposta, ma non ero io solo. Così una parte della Compagnia rinunciò a prendere iniziative e preferì aspettare gli eventi, tanto più che avevamo avuto notizie cattive del trattamento ricevuto dai nostri compagni passati con i partigiani».

E gli eventi furono il trasferimento, incalzati dagli Alleati sul passo della Cisa sino a Fornovo, dove Giovanni trova presso una famiglia di amici un vestito borghese, e poi attraverso varie altre peripezie decide di presentarsi a un comando partigiano. Così continua il suo racconto: «Fui preso come prigioniero e fui portato alla Certosa di Parma. Potei mandare un breve messaggio alla mia famiglia ed ebbi la grande gioia di rivedere mia sorella Maria Pia, che era venuta da Reggio in bicicletta. L’unica manifestazione collettiva a cui, mio malgrado, dovetti partecipare fu la sfilata per le vie di Parma in occasione del primo maggio. Capii concretamente la consuetudine in voga negli eserciti antichi di fare sfilare i prigionieri dietro il carro del generale trionfatore. Devo attestare, peraltro, che non mi capitò di subire violenze o di assistervi, al contrario di ciò che accadde in altre città».

Lo scritto di Giovanni si conclude con episodi della vita nel campo di Coltano, dove lo raggiunsero quasi tutti quelli della Divisione Italia, e così continua: «Io fui contentissimo quando vidi arrivare Telesforo Pirola, con il suo volto arguto e cordiale. Non era fatto per l’ozio, nemmeno in campo di concentramento; gli ufficiali americani che comandavano il campo erano stati informati delle sue straordinarie capacità di artigiano musicale: e gli affidavano ogni sorta di strumenti musicali da riparare. Telesforo veniva compensato “in natura” con qualche sigaretta e con due gavette quotidiane di “pappina” che mi sembrava deliziosa. Questo prezioso cibo veniva quasi tutto riservato a me e a un compagno, giovane quanto me».

E poi così si chiude: «Ci sarebbero tante cose da raccontare riguardo alla mia prigionia, che si protrasse per tutta l’estate del 1945: può darsi che mi decida a ripassare qualche ulteriore ricordo. Comunque, qui voglio accennare all’aspetto che mi sembra il più importante. Nel nostro settore del campo veniva celebrata ogni giorno la Messa. Circolavano ottimi libri di spiritualità cristiana. Ripensando alle mie vicende, vedo l’importanza di questo lungo periodo di “Esercizi spirituali” situato tra l’adolescenza e la piena giovinezza. In quel periodo stabilii anche amicizie che durarono a lungo. Quei mesi non furono del tutto sprecati neppure sotto il profilo degli studi. Infatti la mancanza di maestri e di libri mi spinse a spremere il massimo dalle poche nozioni che avevo potuto apprendere occasionalmente».

Quanto sopra per l’esatta, e non strumentalizzata, verità storica e per ricordare un grande reggiano che ha onorato la scienza e che, come ci ha ricordato su La Libertà Sandro Chesi, «è unanimemente riconosciuto come una delle menti matematiche più acute d’Italia».

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ottobre 6, 2010
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