Superiamo le paure, l’unità dell’Europa è il nostro futuro

«Superiamo le paure, l’unità è il nostro futuro»

Articolo di Romano Prodi su Città Nuova del 29 aprile 2019

L’appello dell’ex presidente della Commissione: a maggio dobbiamo decidere a quale Europa consegnare il futuro dei nostri figli (prima parte dell’articolo)

C’è un episodio, risalente al momento dell’allargamento, che in questi giorni così prossimi alle elezioni europee, torna spesso alla mia memoria. Durante la mia presidenza della Commissione europea si portò a compimento l’allargamento ad Est. Dopo la caduta del muro di Berlino che aveva segnato, anche simbolicamente, la fine della Guerra Fredda, i Paesi che ad Est erano rimasti isolati si trovavano allo sbando. L’Europa non poteva permettersi di avere così tante tensioni subito fuori dai suoi confini. Sarebbe stato un errore fatale la cui portata è facilmente comprensibile: basta provare ad immaginare cosa sarebbe, per noi europei, se la Polonia, o l’Ungheria, fossero nelle stesse condizioni in cui si trova oggi l’Ucraina.

Eravamo esattamente davanti a uno di quei treni della Storia che non si sarebbe ripresentato e che, per questa ragione, non si poteva assolutamente perdere. Mi preme ricordare che il processo di estensione dell’Unione ad Est resta il solo caso al mondo di esportazione della democrazia avvenuto senza spargimento di sangue. Fu invece un processo che coinvolse tutti i Parlamenti degli Stati che autonomamente chiesero l’adesione e che ha richiesto un complesso lavoro di armonizzazione delle regole e dei trattati. Un successo della diplomazia europea.

Nel corso delle negoziazioni, come Presidente della Commissione europea, mi sono recato nei diversi Paesi e ho partecipato alle discussioni parlamentari. E così anche al parlamento rumeno dove, terminata la discussione, si alza un uomo piuttosto imponente, con una grande barba, che si definisce “membro della minoranza non ungherese del parlamento rumeno”.

Definizione perfetta per spiegare la complessità europea. Il suo discorso in favore dell’allargamento e dell’Europa è così tanto appassionato che gliene chiedo la ragione e lui risponde, diretto: «Mio nonno è stato ucciso perché membro di una minoranza, mio padre è stato esiliato perché membro di una minoranza, io voglio l’Europa perché l’Europa è l’unione di minoranze».

Quel parlamentare aveva descritto il mito moderno dell’Europa: unione di minoranze. Un mito che evoca una dimensione che oggi appare lontana e irreale, incalzati come siamo a pensare all’Europa come madre di ogni disgrazia. Ma quel mito, come ogni altro, trae invece le sue origini dalla realtà storica che quel “membro di minoranza del parlamento rumeno” aveva molto chiara. E la realtà storica nella quale la nostra Unione è nata è quella post-bellica. L’Europa era stata devastata dal secondo conflitto mondiale che più di ogni altro si è caratterizzato di elementi ideologici e totalizzanti. Il conflitto aveva pervaso grandissima parte della popolazione civile con deportazioni, bombardamenti e stermini etnici.

I padri fondatori dell’Europa si mossero con la precisa volontà di impedire per sempre, aggregando le nazioni perché insieme cooperassero per il progresso e lo sviluppo di tutti, che ciò che era già stato, per ben due volte, potesse accadere di nuovo. Seppero rintracciare non solo la convenienza politica, ma soprattutto quel carattere etico che le alleanze nazionali avevano assunto durante il conflitto e intesero farlo prima che nuovi nazionalismi, già in agguato, insorgessero con le loro gelosie e rivalità. Fin dalla nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) del 1951, che di fatto rappresenta la prima pietra della costruzione dell’Europa unita, questa volontà è chiarissima: l’aver infatti posto sotto un controllo sovranazionale le industrie di carbone e acciaio, ossia le risorse più preziose per la produzione di armamenti, significava voler impedire riarmi segreti, come era già accaduto dopo il primo conflitto mondiale. Lo stesso Schumann dichiarò che si intendeva rendere «materialmente impossibile una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania».

Quel mito dell’Europa come luogo dove le minoranze potessero agire in uno spazio condiviso, dove gli interessi dei singoli potesse coincidere con l’interesse comune, è stato realizzato per l’intuizione dei padri fondatori: dall’eredità storica che la guerra aveva loro consegnato è nata la nostra Unione. Non fu opera di banchieri, non fu mero calcolo economico. E d’altra parte né Schuman, né De Gasperi, né Adenauer erano economisti.

Da allora è stata pace per oltre 70 anni, mentre subito fuori dai nostri confini guerre sanguinose e persecuzioni hanno falciato via intere generazioni di donne e uomini, senza che siano stati risparmiati i bambini, le minoranze religiose e etniche. Oggi noi diamo per scontata la pace in cui viviamo da lunghissimo tempo, tendiamo a dimenticare che le tensioni e i conflitti insorgono, all’improvviso, nel corso della Storia. La pace invece va difesa, ogni giorno.

Consenso ed entusiasmo hanno accompagnato tutte le conquiste dell’Europa: dalla Ceca alla creazione del più grande mercato interno in cui merci e persone da allora circolano liberamente, dal primo allargamento fino al secondo ad Est e all’Euro. Tanto che l’Europa meritò di essere definita il più grande laboratorio politico dell’epoca contemporanea.

Le cose cominciarono a cambiare dalla bocciatura francese della Costituzione europea nel 2005: quell’entusiasmo si è andato spegnendo, sostituito da un sentimento che è stato anche di aperta ostilità. E quella bocciatura fino a che punto aveva davvero a che fare con l’Europa? Si disse, e forse con qualche ragione, che la Costituzione era stata scritta più come un trattato che come un testo a cui aderire idealmente. Ma il no francese al referendum fu soprattutto figlio della paura e degli interessi nazionali, ossia delle stesse ragioni che hanno spinto sempre più l’Europa verso l’immobilismo. Era il risultato di una sindrome che i media definirono dell’“idraulico polacco” e che altro non era se non la paura innescata in Francia nei confronti dei lavoratori stranieri, per ragioni di politica interna, dai partiti sia di destra che di sinistra uniti solo dalla contrarietà a Chirac. Una successiva indagine giornalistica dimostrò che in tutta la Francia non vi era un solo idraulico polacco, ma oramai i giochi erano fatti e una questione interna ad un Paese aveva bloccato il più grande progetto politico della storia contemporanea.

Seconda parte dell’articolo di Romano Prodi su Città Nuova del 30 aprile 2019

Noi europei, afferma il professore bolognese, siamo chiamati a svolgere un ruolo ora, nella storia che si svolge. Abbiamo ricevuto una eredità che non possiamo ignorare: l’Unione europea è un mito necessario per il futuro delle nuove generazioni.

La paura è stata la colpa più grande dell’Europa: paura delle migrazioni, della crisi, dell’ignoto. Una paura che ogni singolo Stato ha potuto far valere da quando il potere in Europa è passato dalla Commissione, che è l’organo sovranazionale, al Consiglio, dove sono i singoli Paesi a contare e dove, fatalmente, i paesi più forti vincono. Così la Germania impaurita dalle imminenti elezioni in uno dei suo land ha impedito un piano di aiuto tempestivo per la Grecia, così la paura del deficit ha impedito di affrontare la crisi che arrivava dagli Stati Uniti e che richiedeva subito, come fece Obama, un’immissione corposa di liquidità, così abbiamo alzato muri e chiuso i porti anziché sederci attorno ad un tavolo per affrontare insieme la questione della migrazione.

Oggi nessuno afferma che bisogna uscire dall’Europa, complice anche il disastro che la Brexit ha provocato in Gran Bretagna, ma i cosiddetti partiti populisti dicono che questa Europa sacrifica il sovranismo delle nazioni e va cambiata in difesa di un superiore interesse nazionale. Mentre invece siamo arrivati a questa Europa, che non piace, proprio perché si è perso il significato più profondo della nostra Unione che non era, e non può essere, il luogo dove vince lo stato più forte. Se così fosse l’Italia sarebbe perduta, con il suo deficit così alto e la sua crescita così bassa.

L’Europa ha commesso molti errori e io stesso non li ho mai negati. Ma abbiamo oggi davanti due possibilità: cercare di rimetterci sul cammino tracciato dai padri fondatori e tornare a fare politiche comuni o arretrare ancora nel processo di completamento dell’Europa. Come pensiamo infatti di poter affrontare le sfide di una globalizzazione sempre più stringente se non torniamo ad esprimerci come una realtà unita e forte?

È vero che non siamo una super potenza e non può essere questo il nostro obiettivo, ma siamo ancora i primi nella produzione industriale e i primi nell’export. Come pensiamo di affrontare il confronto con le super potenze, Cina e Usa, se ci frammenteremo in una inutile e dannosa guerra per la supremazia dei singoli stati, per gli interessi di parte, e per di più in uno spazio comune? Quale Paese da solo, per quanto forte esso sia, potrà reggere l’urto cinese? Pensiamo al tema della difesa dell’ambiente, dell’occupazione giovanile, delle risorse energetiche, dell’equità fiscale, della difesa del nostro sistema di welfare che nessuna potenza al mondo ha saputo eguagliare. Come potremo progredire se non uniti?

È legittimo che ogni nazione voglia salvaguardare la propria sovranità, è giusto che i giovani crescano con un radicato senso di appartenenza al proprio Paese, ma come pensiamo di tutelare da soli tutto il nostro patrimonio, tutto che ciò che siamo, se saremo soli davanti ad una potenza come la Cina? Ci sono nel mondo 23 cinesi per ogni italiano, ma sono 3 i cinesi per ogni europeo: non basta per capire che solo uniti possiamo farcela ad avere una voce nel mondo? La nostra sovranità dove andrebbe a finire al confronto di questi numeri? E chi meglio potrà preservare la nostra identità se non l’Europa, per secoli teatro della nostra storia.

Ecco perché ho sostenuto che queste prossime elezioni sono dirimenti e ho chiesto che dalle finestre e dai balconi delle case degli europeisti italiani, di destra e di sinistra, fosse esposta la bandiera europea. A maggio dobbiamo decidere a quale Europa consegnare il futuro dei nostri figli. Ad una Europa memore della sua storia, delle sue origini, consapevole dei suoi errori ma capace di rimettersi in piedi unita e forte, o ad un’Europa che fatalmente si disgregherà e resterà, questa volta davvero, l’Europa delle banche e degli interessi finanziari?

L’Europa non è compiuta, ho tante volte detto che è come un pane cotto a metà che non attira simpatia, ma siamo dinnanzi a un processo così lungo e complesso perché avviene in un tempo di pace. Solo la guerra infatti risolve in fretta le questioni ma il suo prezzo è altissimo, inaffrontabile per i nostri figli e inimmaginabile per chi sa cosa è stato crescere nella guerra. La guerra lascia dietro di sé solo odio, e con l’odio non si costruisce nulla. Solo i processi democratici sono la risposta, seppur lenti e complessi, al desiderio di autoritarismo che circola per il mondo. Noi europei per primi sappiamo che quella è una strada che conduce alla tragedia e siamo chiamati a svolgere un ruolo ora, nella storia che si svolge. Abbiamo ricevuto una eredità che non possiamo ignorare: l’Europa unita è un mito necessario per il futuro delle nuove generazioni.

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
aprile 30, 2019
Articoli, Italia