Il costo pagato dagli Usa per i dazi di Trump
Il costo pagato dagli Usa per i dazi
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 03 giugno 2025
Sono passati due mesi e un giorno dallo sciagurato due aprile, definito da Trump il giorno della liberazione. Doveva essere il punto forte del grande progetto “Make America Great Again” che, soprattutto usando un aumento dei dazi senza precedenti, avrebbe riequilibrato e fatto rifiorire sia l’economia sia la politica degli Stati Uniti, trasferendo sugli altri paesi il costo necessario.
Anche se l’allucinante serie di quotidiane decisioni fra loro contraddittorie sta creando incertezza in tutto il mondo, possiamo distinguere almeno due fasi di questa politica.
Nella prima Trump ha tentato il rilancio americano isolando il paese da tutto il resto del mondo, imponendo dazi assurdi contro tutti, persino contro Messico e Canada che esportano beni prodotti quasi esclusivamente da aziende americane. A questo si è aggiunta un’arroganza politica senza precedenti, con pretese territoriali nei confronti di Canada, Panama e Groenlandia e con toni aggressivi rivolti anche all’Unione Europea, definita uno strumento nato solo per danneggiare gli Stati Uniti. Questo progetto non ha funzionato nemmeno per un giorno: il dollaro ha cominciato a soffrire, la Banca Centrale Americana non ha potuto abbassare i tassi e il costo del debito pubblico è ora di gran lunga superiore alle spese per la difesa.
Sin da subito è emerso che il costo di tale politica lo pagavano gli americani e non gli altri paesi: un errore politico sancito dal declassamento del merito di credito americano.
Un evento certificato, per la prima volta nella storia, da tutte tre le grandi società di rating degli Stati Uniti.
A questo punto Trump ha scelto di trattare con tutti, in modo assolutamente discontinuo ed imprevedibile, ma con l’obiettivo di dividere gli interessi dei diversi paesi. Risultati pochi, anche quando ha trattato con un interlocutore privilegiato come la Gran Bretagna, quasi unico paese con cui gli Stati Uniti hanno un surplus commerciale.
In questa seconda fase, che potremmo chiamare della confusione, ha concesso moratorie per permettere l’apertura delle trattative, ma ha poi imposto condizioni che rendono sostanzialmente impossibili i negoziati, provocando una diffusa incertezza e allontanando l’obiettivo di attrarre nuovi investimenti produttivi negli Stati Uniti.
L’errata politica daziaria è stata accompagnata, soprattutto nei confronti della Cina, dall’embargo dell’esportazione dei prodotti tecnologici più sofisticati, in modo da mantenere la superiorità americana nei settori tecnologicamente più avanzati. Come risposta vi è stata un’intensificazione dei programmi di ricerca cinesi, a partire dall’Intelligenza Artificiale, a cui si è accompagnata la limitazione dell’esportazione delle terre rare, sempre più indispensabili per l’industria americana, riguardo alle quali la Cina ha una posizione di quasi monopolio.
Il progetto americano di trattare solo bilateralmente procede ancora, ma con la consueta imprevedibilità per cui, mentre almeno teoricamente rimangono aperte le trattative, vengono imposti, con effetto immediato, dazi capestri sull’acciaio e l’alluminio. Questo mentre le indagine demoscopiche ci dicono che i cittadini americani appoggiano Trump nel progetto di reindustrializzare il paese, ma non sono disposti a lavorare nell’industria e non accettano gli immigrati che li sostituiscano.
La realtà è che il progetto di riequilibrare attraverso i dazi la bilancia commerciale americana è semplicemente impossibile. L’impressionante deficit del commercio estero deriva dalla struttura stessa dell’economia americana, in cui i consumi privati raggiungono l’enorme percentuale del 68% del PIL, mentre sono del 52% in Europa e del 38% in Cina. Su questo dato cinese è necessario riflettere, in quanto anch’esso è all’origine di squilibri che debbono essere assolutamente messi in ordine.
All’origine del grande deficit commerciale americano abbiamo quindi una realtà: un consumo privato sproporzionato e decenni di emigrazione delle multinazionali americane verso gli altri paesi, soprattutto quelli a basso costo del lavoro. Non si può dimenticare che, in questa lunga storia, quasi un terzo delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti è stato originato da multinazionali americane e che la catena del valore e le componenti di questi prodotti sono così complesse che il loro trasferimento verso gli Stati Uniti risulta sostanzialmente impossibile. E’ questa la ragione per cui le imprese che abbandonano la Cina non si trasferiscono negli Stati Uniti ma in altri paesi, a partite dall’India e dal Vietnam.
La tanto vantata decisione di realizzare in Pennsylvania un nuovo stabilimento siderurgico frutto di una joint venture fra US Steel e Nippon Steel è, dal punto di vista quantitativo, una decisione poco più che propagandistica. Nonostante ciò, Trump non sembra avere alcuna intenzione di cambiare politica, alimentando un’incertezza che sta già provocando una diminuzione della crescita di tutta l’economia mondiale. L’unico modo per fermare in tempo questo rallentamento ed evitare che si trasformi in una crisi globale è mettere in atto una strategia comune di difesa da parte degli altri paesi, cominciando dall’Unione Europea e dalla Cina.
Per il gigante asiatico la decisione sarà certamente più facile, anche se la fuga delle multinazionali porterà problemi non trascurabili.
Più complesso è, come il solito, il caso europeo. Anche se la politica commerciale è di esclusiva competenza dell’Unione, la quotidiana tentazione di alcuni paesi di presentarsi come interlocutore privilegiato degli Stati Uniti emerge ogni giorno. Si tratta di un tentativo senza possibilità di successi per i singoli paesi, ma di danno per l’intera Europa. Solo trattando tutti insieme possiamo difendere i nostri interessi individuali.
I due mesi che sono trascorsi dal due aprile hanno fatto male soprattutto agli Stati Uniti. Operando insieme possiamo impedire che facciano male anche all’Europa.