Il futuro del Paese e le riforme necessarie nello scenario che cambia

La lezione del 2022 – Il futuro del Paese nello scenario che cambia

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 2 gennaio 2023

L’anno appena trascorso non è stato un buon anno. E’ capitato di tutto: dalla terribile guerra di Ucraina alla crisi energetica, dall’inflazione all’aumento dei tassi di interesse, senza contare il Covid, che continua ad andare e venire.

In questo quadro non si può certo dire che l’italia se la sia passata bene, ma bisogna ammettere che, nonostante tutto, la sua economia ha sofferto meno dei paesi confratelli, crescendo intorno al 2,9%, cioè un po’ meglio della media europea e, soprattutto, un paio di punti in più della Germania e lo 0,3% in più della Francia.

In termini di crescita l’anno che si è appena inaugurato parte naturalmente con prospettive peggiori, perché tutti sono proiettati a controllare l’inflazione innalzando il costo del denaro e ponendo quindi un freno al tasso di sviluppo. Cresceremo quindi molto poco, al massimo intorno allo 0,5% ma, come magra consolazione, leggermente meglio dei nostri principali concorrenti europei.

Non c’è tuttavia molto da stare allegri, anche perché i redditi dei lavoratori italiani, già inferiori nei confronti dei paesi che hanno un analogo costo della vita, dovranno fare i conti con un aumento dei prezzi molto superiore alla crescita dei salari, soprattutto nei settori che incidono maggiormente sulle categorie più deboli come l’energia e i prodotti alimentari.

Questo sarà il problema più difficile da affrontare, anche perché, nella legge finanziaria appena approvata, il punto di maggior dissenso fra governo e opposizione si è concentrato sulla diversità di trattamento fiscale di coloro che sono soggetti a partita IVA rispetto alle aliquote più pesanti che gravano sui lavoratori dipendenti.

Minori, rispetto alle previsioni degli scorsi mesi, dovrebbero invece essere i rischi di vedere il paese paralizzato dalla mancanza di gas. Anche se a caro prezzo, sono infatti cresciute le fonti di investimento alternative, sia attraverso i gasdotti rimasti attivi, sia con l’arrivo di gas liquido da ovest, da sud e da est.

Sono inoltre diminuiti fortemente i consumi, ovviamente a causa dell’aumento delle tariffe e di un clima finora più mite del solito, ma anche per un lodevole, seppur modesto, senso di disciplina dei consumatori.

Tuttavia, come ha recentemente rilevato il prof. Cingolani, l’incredibile complicazione dei comportamenti della burocrazia, ha colpevolmente ritardato la crescita delle energie rinnovabili.

Mi chiedo a questo punto perché non si proceda subito con un progetto di portata straordinaria: l’obbligo di installazione di impianti fotovoltaici su tutti gli stabilimenti industriali, sui grandi magazzini, sulle barriere autostradali e su tutte le strutture che non hanno alcuna reale necessità di autorizzazione dal punto di vista ambientale e paesaggistico.

Le forme giuridiche possono essere infinite e così gli strumenti di incentivo, ma abbiamo il paese pieno di aree artigianali, industriali e commerciali nelle quali possono essere resi obbligatori gli impianti fotovoltaici in forme consortili o con investimenti singoli.

E’ evidente che questo non può servire per l’inverno in corso ma bisognerà pur pensare anche al futuro!

Così come bisognerà pensare al futuro affinché l’Italia possa partecipare in modo attivo alla riorganizzazione delle localizzazioni produttive che sta procedendo in tutto il mondo. Si è ripetuto più volte che, in conseguenza delle crescenti tensioni economiche e politiche, le maggiori imprese mondiali saranno obbligate a essere presenti come produttori in tutte e tre le grandi aree economiche del mondo: Cina, Stati Uniti e Unione Europea.

Limitandomi alle decisioni di investimento già dirette verso il nostro continente, debbo constatare che l’Italia, pur essendo il secondo paese industriale d’Europa, è finora, come si usa dire, fuori dal giro.

E’ già nota la decisione di Tesla, leader americano di auto elettriche e di batterie, di localizzarsi in Germania, così come la quota dominante degli investimenti di Intel, maggiore produttore americano di semiconduttori.

Sembra ormai dirigersi verso Dresda anche il più grande e raffinato produttore mondiale di semiconduttori, il colosso Taiwanese TSMC. E l’elenco potrebbe proseguire.

Eppure qualsiasi analisi economica concorda sul fatto che la produttività di Torino, Ivrea, e di molte altre città italiane, non è affatto inferiore (o è forse superiore) a quella di Berlino o Dresda e il costo del lavoro quasi la metà.

E’ vero che la Germania ha tasche profonde per attrarre le imprese ad alta tecnologia ed è vero che la nostra giustizia e il nostro sistema burocratico non incoraggiano di certo gli investimenti stranieri.

Tuttavia, oltre a completare presto le necessarie riforme, è urgente costituire una task force che, con un alto livello di specializzazione e fornita della necessaria autorità politica, sia in grado di presentare al mondo le reali capacità che il nostro paese possiede.

Non è infatti tollerabile che gli esperti del settore non nominino nemmeno l’Italia nell’elenco dei paesi destinatari dei futuri 380 miliardi di dollari che i tre più grandi produttori mondiali di semiconduttori hanno programmato di investire nei prossimi anni.

E’ bene infatti ricordare che solo con l’aumento delle spese in Ricerca e Sviluppo e con l’arrivo in Italia di imprese tecnologicamente avanzate, si può invertire l’impressionante flusso in uscita dei nostri giovani talenti. Altri strumenti non esistono.

Mi auguro quindi che il 2023, anche se non potrà essere un anno da ricordare negli annali, ci serva almeno a preparare un futuro migliore.

 

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