Politica industriale: il ritardo da colmare su chip e batterie

Politiche industriali – Il ritardo da colmare su chip e batterie

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 26 agosto 2023

Riguardo alla necessità di riorganizzare l’economia mondiale, in conseguenza dell’arrivo delle nuove tecnologie e della sfida ambientale, è stato detto e ripetuto che il futuro dipenderà da due prodotti fondamentali: i semiconduttori (chips) e le batterie.

A questa condivisa dottrina è seguita l’altrettanto condivisa constatazione che il primato di entrambi questi settori è nelle mani dei grandi produttori asiatici ed americani.

Gli investimenti cinesi, sudcoreani, taiwanesi e giapponesi si confrontano unicamente con il gigantesco piano degli enormi progetti americani spinti dagli incentivi pubblici.

A questa sfida sta rispondendo, seppure tardivamente, una reazione europea non certo in grado di portarci verso il primato mondiale, ma almeno sufficiente per non essere tagliati fuori da questa rivoluzione in corso.

Riguardo ai semiconduttori è stato elaborato un progetto ambizioso, chiamato Chips Act, destinato a portare la produzione europea a coprire la gran parte dei suoi consumi interni. L’obiettivo, difficile ma realistico, è di fare risalire, entro il 2030,  la quota di produzione europea dal 10% al 20% del totale mondiale, come era esattamente trent’anni fa. Dato però che la produzione globale è destinata a raddoppiare entro la stessa data, questo significa quadruplicare l’attuale capacità produttiva del nostro continente. Il commissario europeo Thierry Breton, responsabile del progetto ha, con giusto orgoglio, dichiarato che sono già disponibili  43 miliardi di incentivi pubblici per raggiungere questo traguardo.

Quando tuttavia si analizza in concreto dove si dirigeranno gli incentivi in grado di attirare i nuovi giganteschi investimenti, ci accorgiamo che la politica europea si concretizza sostanzialmente in una serie di politiche nazionali fra loro concorrenti.

L’impresa leader mondiale, la TSMC taiwanese, investirà dieci miliardi  in un impianto a Dresda e l’americana Intel ha progetti per 30 miliardi di Euro in Germania, 12 in Irlanda e quasi 5 in Polonia. Mentre l’italo- francese STMicroelectronics e la GlobalFoundries costruiranno insieme in Francia un impianto da oltre 7 miliardi di Euro. Riguardo all’Italia si è fatto di nebbia anche il pur modesto investimento prospettato dall’Intel.

Se dai chips passiamo alle batterie, il quadro è più variegato, ma con caratteristiche simili: al primato tedesco, consolidato anche da investimenti cinesi e americani, si aggiungono enormi realizzazioni già in avanzata fase di esecuzione nei paesi nordici, in Francia, in Spagna e nell’Est Europa. La decisione per l’unico progetto di dimensioni accettabili da localizzare in Italia, grazie al consorzio a cui partecipano Stellantis e Mercedes, è rinviata al 2026, mentre sono già oggi in costruzione i veri mega impianti di Germania e Francia.

Il che vuol dire che il nostro impianto sarà realizzato solo se non sarà sufficiente la produzione di quelli già in costruzione. In conclusione a tutt’oggi, al nostro paese, che pure è per fatturato industriale il secondo in Europa, rimangono soltanto ipotetiche briciole. E’ pur vero però che la Germania dispone di quasi la metà dei possibili incentivi dell’intera Unione Europea e che l’Italia non sembra in grado di mettere in campo le risorse pubbliche di cui possono disporre altri paesi.

In Italia non vedo tuttavia, nemmeno in agenda, un minimo dibattito politico per almeno chiarire perché questi investimenti, ritenuti determinanti per il futuro del nostro paese, si dirigano verso realtà che hanno costi del lavoro molto più elevati del nostro e con una produttività che, sia a Dresda che in Francia, non è certamente superiore a quella di Ivrea, di Torino o di Termoli o che, in alternativa, si preferiscano destinazioni con un costo del lavoro certamente inferiore a quello italiano, ma con un livello di specializzazione non comparabile al nostro.

Prima o poi dovremo pur chiarirci le idee sul nostro futuro produttivo. Se ci rassegniamo ad essere fuori dalle batterie, a essere sempre più marginali nell’automobile e con perdite di quota nei chips, dovremo almeno discutere quali altre strade percorrere.

Se pensiamo che sia sufficiente potenziare le imprese del Made in Italy, cerchiamo almeno di mettere sul tavolo gli strumenti necessari per aumentare l’efficienza delle piccole imprese che ne sono alla base.

Esse hanno infatti una presenza superiore a quella di qualsiasi altro paese europeo ma, mediamente, non raggiungono un sufficiente livello di produttività. Se il troppo piccolo è un nostro problema (ed è davvero il nostro problema) prepariamo gli strumenti per farlo diventare più grande.

Occorre però una politica industriale per aiutare questa crescita con innovazioni legislative, con scelte settoriali e territoriali, con provvedimenti di carattere finanziario condizionati a obiettivi di crescita, con incentivi alla ricerca e semplificazioni burocratiche. Tutti interventi che debbono avere una dimensione significativa.

Lo stesso si può dire riguardo alla necessità di creare gli strumenti per evitare che le imprese familiari entrino in crisi ad ogni passaggio di generazione. Ripetiamo sempre che tutto sta cambiando, ma non ci stiamo interrogando sul ruolo che possiamo ricoprire in questo cambiamento e sulle linee strategiche necessarie per perseguirlo.

Cerchiamo quindi di completare questi ragionamenti con un alcune semplici conclusioni. La  prima è che la politica industriale è oggi necessaria e che bisogna finalmente prepararla con fondi e leggi adeguate. La seconda è che esiste una politica industriale rivolta ai mercati internazionali per attirarne gli investimenti, come fanno gli altri paesi, e una politica industriale rivolta all’interno.

E la conclusione di tutte le conclusioni è che, mentre delle riforme strutturali interne non si discute nemmeno, l’unica attenzione dei grandi protagonisti dell’economia mondiale nei confronti dell’Italia si è finora riassunta nell’ipotesi di svolgere, sul suo sacro suolo, un ipotetico duello rusticano fra Musk e Zuckerberg.

 

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