Nuove competenze per superare la crisi del PD

La crisi del Pd – Il contributo di competenza che serve ai riformisti

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 22 gennaio 2023

I risultati elettorali hanno, come sempre avviene, portato gioia ed euforia tra i vincitori e, ovviamente, sconforto e recriminazione tra i perdenti. Il tutto è normale e non deve nemmeno sorprenderci il fatto che la riflessione sulla sconfitta non abbia minimamente toccato il perdente maggiore, cioè 5Stelle, e abbia invece monopolizzato il dibattito del Partito Democratico.

Ed è ovvio che sia così perché il confronto è proprio di un Partito Democratico, mentre i partiti personali non possono operare attraverso il confronto, ma solo attraverso le scissioni.

La discussione interna del PD ha assunto però un peso del tutto particolare, arrivando fino a mettere in dubbio le fondamenta stesse del partito.

L’espressione “fusione fredda”, ormai divenuta di uso comune, fa propria la tesi che i riformismi dei cattolici-democratici e dei socialcomunisti non si siano saldati in un partito veramente unico e che questo sia alla base del mancato successo elettorale.

Il problema è che la fusione non è mancata alla base ma, per usare un termine popolare, tra i vertici della “ditta”, indipendentemente dalla loro originale appartenenza. Non abbiamo, infatti, avuto negli scorsi anni alcuna rottura che si riferisse all’origine cattolica o socialista.

Vi è stata, invece, come è emerso nelle recenti elezioni, una sostanziale solidarietà di tutti i vertici della “ditta” nell’evitare aperture, dibattiti, discussioni e congressi che potessero turbare i loro equilibri.

Un partito democratico nasce affrontando i problemi e non attraverso gli accordi o gli scontri fra le persone.

Se ci riferiamo ai problemi dobbiamo però ammettere che, almeno nel campo della solidarietà e dei diritti sociali, la fusione a livello di base, si è concretizzata.

Non solo nella terminologia, nella quale la parola “comunità” domina incontrastata, ma anche nel  servizio effettivo alla comunità, ormai condiviso nel sentimento e nelle azioni quotidiane di milioni di partecipanti.

Il problema è che, a questa “fusione calda” di base, non sembra corrispondere una coerente azione nelle strategie dei vertici: è questa la ragione della diserzione del voto popolare nei confronti del Partito Democratico. Il che non riguarda soltanto il fronte riformista italiano, ma coinvolge la maggioranza o la quasi totalità dei partiti di centro-sinistra di tutta Europa.

Un’analisi onesta ed oggettiva evidenzia tuttavia il fatto che la destra conservatrice è ancora più avara nell’elaborare proposte volte a correggere gli squilibri e le disparità che stanno mettendo a rischio la tenuta sociale e la stessa democrazia.

Essa però gode del vantaggio di essere ancora spinta dal condiviso sentimento che l’interesse individuale debba necessariamente dominare nella politica e che qualsiasi misura dedicata a riequilibrare le posizioni di partenza dei cittadini sia dannosa alla società.

Ad esempio non si discute più, come qualche tempo fa, su quale sia l’ auspicabile equilibrio fra imposte e servizi. Chi più insiste nella proposta di diminuire le tasse vince le elezioni.

Siamo arrivati al punto in cui il solo accenno all’opportunità di introdurre una modesta tassa di successione per gli estremamente ricchi ha trovato tutti contro. Eppure è una proposta che viene caldamente appoggiata perfino dai “super-ricchi” americani che vedono, nell’eccessiva disparità, un rischio per la tenuta sociale del loro paese.

Ancor più sono costretto a riflettere sul fatto che quando è stata varata la flat-tax, che gioca oggettivamente a sfavore di tutti i lavoratori dipendenti (pubblici o privati), non vi è stata alcuna protesta da parte dei numerosi elettori dei due maggiori partiti di maggioranza colpiti da questa decisione.

Da tutto questo si potrebbe concludere che il centro-destra nuota con la corrente a favore e il centro-sinistra contro-corrente ma, quando poi si parla direttamente con le singole persone, tutti ammettono che tali politiche, anche se spinte da un prevalente pensiero italiano e internazionale, sono ingiuste. E che quindi bisogna cambiare politica.

Penso che quando il parere di tanti singoli si discosta dalle decisioni della politica, vi sia spazio per costruire il nuovo. Bisogna però ricordare che, nei sistemi democratici, il partito politico si costruisce non solo ascoltando, ma facendo partecipare delle scelte milioni di persone.

Alle quali tuttavia non si possono presentare tesi generiche e astratte, ma proposte approfondite non solo nella loro formulazione, ma anche nelle loro conseguenze.

Posso solo ricordare, come testimonianza diretta, il senso di partecipazione emotiva quando, nel 1978, l’on. Tina Anselmi presentava il Servizio Sanitario Nazionale con una precisa visione sul cambiamento che avrebbe prodotto nella società italiana. Ho ancora presente la passione con cui illustrava il lavoro fatto per preparare il testo, con il contributo dei più autorevoli esperti di tutto il paese.

Se il riformismo vuole riprendere il suo ruolo deve ritornare a servirsi del contributo dei più competenti, delle più autorevoli espressioni culturali del settore e dei più significativi corpi intermedi, dalle organizzazioni minori fino ai sindacati. Solo così un partito può chiamarsi democratico.

Questo dialogo non esiste più in nessun partito, ma chi nuota con la corrente a favore forse non ne ha bisogno. Il Partito Democratico può invece ricostruirsi solo attraverso il coinvolgimento di milioni di cittadini.

Una sfida difficile, ma non impossibile perché, nel mondo, sta crescendo la consapevolezza che il “pensiero unico” dominante, che ha provocato tante disuguaglianze, sta logorando la natura stessa della democrazia.

 

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